Buon primo lunedì del mese a tutti.
Ancora una volta ci ritroviamo tutti insieme per questo bellissimo appuntamento.
Se tutto va come dove andare questo post verrà pubblicato mentre io sarò finalmente in vacanza, quindi mentre tutti voi correte per andare al lavoro io sono distesa sul mio nuovissimo telo mare comprato al Disney Store in offerta la scorsa settimana, armata del mio adoratissimo Kindle in versione mare (ricoperto ad metri e metri di pellicola) accingendomi probabilmente a iniziare la lettura di Anna Karenina, o la rilettura di Harry Potter, o un'altro del quasi centinaio di volumi che ho scaricato sul libro magico qualche giorno fa.
Ma bando alle ciance correte a leggere questo nuovo particolarissimo, stupendo ritratto regalatoci da Michele.
Buon viaggio..
Una
cortina di fumo mi circonda, a tal punto da impedirmi di vedere anche
a un palmo dal naso. Sembra formata dagli sbuffi di ghiaccio secco
di un concerto rock o, se non fossi consapevole di come sono giunto a
questo punto, direi che è merito dei fumi che circondano le
astronavi aliene nei film di serie B. Questo non è un film di
fantascienza e, soprattutto, non ho viaggiato in compagnia di E.T tra
pianeti sconosciuti. Ma ho viaggiato. E tanto..
Ho
attraversato gli anni e gli oceani, facendo una falla nel presente e
affacciandomi in un passato che pensavo di conoscere. Tutto per
vederla. La prima cosa che mi colpisce degli anni '60 è il fumo.
Credetemi se vi dico che sarebbe il paradiso su misura per Italo
Svevo! Fumano tutti e fumano ovunque. Fuma il tipo che mi guarda,
sospettoso, da sopra il giornale. Fumano l'uomo corpulento dietro il
bancone, l'addetta alle cucine e la cameriera sorridente che, in
questo momento, mi si avvicina. Se non fosse per la sigaretta che le
pende tra le labbra rosse, somiglierebbe alla perfezione alla vecchie
modelle che si vedevano all'epoca delle prime Coca-cola. Incrociando
il suo sguardo, scuoto il capo. La mia accompagnatrice non è ancora
arrivata. Una mezz'ora di elegante ritardo. Mi aspettavo peggio,
conoscendo il personaggio. Poi sento il rumore metallico di una
collana che oscilla, una donna si schiarisce delicatamente la voce.
Sollevo lo sguardo e, improvvisamente, non sono più tanto sicuro di
non essere sbucato in una galassia lontana.
I denti sono perle
bianche, il sorriso è una linea ondulata e colorata di rossetto che
illumina un volto dalla bellezza inimitabile. I capelli sono di un
biondo che nessun parrucchiere riuscirà mai a emulare e nessuna
telecamera, per quanto sofisticata, riuscirà a cogliere. La guardo
sfacciatamente e mi ripeto che forse non è di questo mondo. Si china
su di me emanando deliziosi sbuffi di profumo a ogni passo, mi passa
la mano sotto il mento e, con una smorfia simpatica, mi chiude la
bocca spalancata. Una nuvola di Chanel n°5 per la figura di merda
più colossale dei miei diciotto anni! Arrossisco violentemente e,
con gli occhi chini, stringo il mio taccuino tra le mani. Lei ride e
il mondo smette di fare rumore. Gli occhi sono puntati su di lei,
protagonista di uno spettacolo “sold out” che continua anche
nella sua vita privata. Niente privacy, niente segreti che non siano
già stati spiattellati sui rotocalchi dell'ultimo mezzo secolo. «
Don't worry, Michele. Non sarebbe comunque la prima volta che
capita». La sua voce è un musicale mix di italiano e americano, con
le vocali leggermente aperte e le “c” strascicate in dolci
fruscii di parole. Non credo abbia mai girato nemmeno un film da noi, ma nel regno della mia mente ha più risorse lei di Google Translate.
«Avrei immaginato baffetti da bibliotecario, un raccapricciante
riporto e un papillon sfatto. Non.. te...». Balbetto qualcosa di
incomprensibile e mi avvento sulle domande. Lei ascolta attentamente
con le gambe accavallate e la scarpa dal tacco grigio champagne
sembra tracciare, nel frattempo, circonferenze immaginarie nell'aria.
Sa già cosa chiederò, e non vorrebbe ascoltare. Ora è lei a
evitare il mio sguardo e i suoi occhi azzurri si perdono in ricordi
in cui quella bimba riccioluta è soltanto una faccia in bianco e
nero in una foto di gruppo. La protagonista di una tragedia familiare
che non è la sua. Adesso tutti conoscono il suo nome e nessuno può
ferirla.
Lei è Marilyn, Norma Jeane non c'è più. Quella ragazzina
è stato un errore portato in grembo per nove mesi. Una figlia non
voluta; un errore all'anagrafe, nato dall'unione dei nomi di
battesimo di due dive del dopoguerra: Norma Talmadge e Jean Harlow.
Una svista come lo è aggiungere una “e” di troppo. Nacque
nell'estate del 1926, ma il suo cuore fu a lungo tormentato dal
rigore di un inverno perenne. Una madre fragile e incostante, degli
zii soffocati dal fanatismo religioso, una felicità fugace sotto il
tetto di un'amica di famiglia e poi gli orfanotrofi, gli orfanotrofi,
il sesso scoperto ancora da bambina e un circolo di violenza e
privazioni – alimentato da famiglie lampo, da papà dalle mani
troppo lunghe e da carcerieri rimasti ancora senza volto.
Improvvisamente, l'indipendenza. Un nuovo nome, un nuovo colore di
capelli, un nuovo modo di atteggiarsi e sorridere. Studiato per
piacere, sfondare, farsi amare e riempire un vuoto dalle proporzioni
di un'infanzia sottratta. I suoi occhi troppo azzurri mi parlano di
un destino d'attrice scritto anche all'anagrafe, degli uomini
sbagliati, dell'amore più intenso che si è rivelato soltanto bieco
possesso, dei soldi che, aveva creduto, potessero renderla felice.
Però continua a non dire niente, mentre io porto finalmente a
termine la prima di una serie di noiose domande che, immagino, avrà
sentito già mille volte. Osservo il collo candido che sbuca da un
dolcevita nero, il carnoso neo sul labbro destro, le sue forme
morbide che sovvertono completamente le silhouette filiformi che
falcano le passerelle odierne e, soprattutto, osservo quegli occhi
tremanti che cercano una via d'uscita. Che mi chiedono già basta. Mi
appare nella sua vera essenza, una bambola di ceramica con troppo
trucco che ha imparato a vivere delle attenzioni altrui: indifesa,
immensamente piccola nel suo metro e sessantasei, la bimba dal
pianoforte scordato - che era un tempo e non è mai stata - alla
mercé di un orco cattivo e dispettoso. Così come si era calato, il
sipario torna ad alzarsi. Mi si avvicina di nuovo e di nuovo vacillo
sulla mia panca. Mi sposta il ciuffo dagli occhi e, mordendosi la
lingua come una bimba alle prese con una marachella, mi sfila gli
occhiali da vista. I suoi occhi rimpiccioliscono dietro i vetri
spessi dei miei Ray Ban e li storce con uno sbuffo irriverente. Tende
le mani nel vuoto, come se volesse acchiapparmi. Eccomi, le dico
nella mia mente. Prendimi.
«Uh,
sembri così piccolo», sghignazza, e, indicando il massiccio
barista: «Pensa che lui lo vedo come uno dei Puffi! Un grosso Puffo
arrabbiato, e rosso come un peperone!». Hulk, lì, risponde con un
grugnito e Marilyn controbatte con un'altra risata argentina, che
scema nel pugno che si porta alla bocca, simulando un mal riuscito
attacco di tosse. Lei è cosi. Pazza e meravigliosa. Un miracolo che,
la notte, si oscura dietro un banco di malinconia.
«Penso sia l'ora di andare via. Sei un bel ragazzino, ma non credo che le storie che ti porti dentro e i libri che ti porti appresso possano fare qualcosa contro le nocche di quel bruto. Voglio portarti nel mio posto segreto». Io sto scappando insieme a Marilyn Monroe. I flash dei paparazzi in strada, la sua mano attorno al mio braccio, lo scalpiccio di piedi in fuga, un'oasi di pace in piena New York.
Sfrecciamo dinanzi alle vetrine luccicanti di Tiffany e potrei giurare di aver scorto un tubino nero, una collana di perle e un paio di Ray Ban scuri, certamente più famosi dei miei, riflessi tra gli ori e i diamanti. Audrey e la sua strana e celebre colazione: la più dolce. Imboccato un vicolo sperduto, ci troviamo davanti a un negozietto dal parquet lucido e dall'odore di cera e sandalo ad aleggiare, simili a note ancora inespresse, tra le scale a chiocciola e i tasti in bianco in nero. Un trilione di tasti per un mare in cui, a galleggiare, ci sono pianoforti di ogni foggia e colore. La presa di Marilyn si fa più intensa e la sua voce lascia trapelare un brivido di emozione: «Questo è il mio rifugio. Nemmeno i colpi di cannone potrebbero affondarmi su questa nave che - al posto delle vele, della poppa e di quello strano sterzo che gira.. mmm.. come si chiama? - ha 88, piccole scialuppe di salvataggio in cui barricarmi». Volteggia su sé stessa in un ciclone di balze perfettamente stirate e sorride riconoscente alla coppia di anziani che la osserva da dietro la cassa. Sono loro i proprietari di questo castello in cui la ragazza che ha tutto può sentirsi una vera principessa. Le sue dita scivolano sui tasti di un piano a coda, dando vita a una trascinante scala musicale che rompe il silenzio. «88», mormora, «il numero perfetto. L'infinito che guarda in faccia l'infinito.. Non ho mai avuto un piano tutto mio. Non ho mai avuto nulla, in verità, che fosse tutto mio. Nella cittadina in cui sono cresciuta, mi incantavo a contemplarli dalle finestre affacciate sul negozio di musica, poi, una delle mie tante mamme, l'ha comprato di seconda mano da un'ex stella del cinema muto. Era scheggiato, rotto, scordato, ma aveva ancora tante cose belle da dire.
«Penso sia l'ora di andare via. Sei un bel ragazzino, ma non credo che le storie che ti porti dentro e i libri che ti porti appresso possano fare qualcosa contro le nocche di quel bruto. Voglio portarti nel mio posto segreto». Io sto scappando insieme a Marilyn Monroe. I flash dei paparazzi in strada, la sua mano attorno al mio braccio, lo scalpiccio di piedi in fuga, un'oasi di pace in piena New York.
Sfrecciamo dinanzi alle vetrine luccicanti di Tiffany e potrei giurare di aver scorto un tubino nero, una collana di perle e un paio di Ray Ban scuri, certamente più famosi dei miei, riflessi tra gli ori e i diamanti. Audrey e la sua strana e celebre colazione: la più dolce. Imboccato un vicolo sperduto, ci troviamo davanti a un negozietto dal parquet lucido e dall'odore di cera e sandalo ad aleggiare, simili a note ancora inespresse, tra le scale a chiocciola e i tasti in bianco in nero. Un trilione di tasti per un mare in cui, a galleggiare, ci sono pianoforti di ogni foggia e colore. La presa di Marilyn si fa più intensa e la sua voce lascia trapelare un brivido di emozione: «Questo è il mio rifugio. Nemmeno i colpi di cannone potrebbero affondarmi su questa nave che - al posto delle vele, della poppa e di quello strano sterzo che gira.. mmm.. come si chiama? - ha 88, piccole scialuppe di salvataggio in cui barricarmi». Volteggia su sé stessa in un ciclone di balze perfettamente stirate e sorride riconoscente alla coppia di anziani che la osserva da dietro la cassa. Sono loro i proprietari di questo castello in cui la ragazza che ha tutto può sentirsi una vera principessa. Le sue dita scivolano sui tasti di un piano a coda, dando vita a una trascinante scala musicale che rompe il silenzio. «88», mormora, «il numero perfetto. L'infinito che guarda in faccia l'infinito.. Non ho mai avuto un piano tutto mio. Non ho mai avuto nulla, in verità, che fosse tutto mio. Nella cittadina in cui sono cresciuta, mi incantavo a contemplarli dalle finestre affacciate sul negozio di musica, poi, una delle mie tante mamme, l'ha comprato di seconda mano da un'ex stella del cinema muto. Era scheggiato, rotto, scordato, ma aveva ancora tante cose belle da dire.
Distrutto e annientato come questo
cuore mio, ma con ancora tante melodie da cantare». E' allora che
noto le occhiaie coperte da un velo di fondotinta, le rughe scavate
dal dolore, un ghigno sofferente mascherato da sorriso. La sua vita
la conoscono tutti, ma ora mi darà un frammento inedito di sé
stessa. La vecchia e la nuova lei si incontrano a bordo di quella
zattera di salvataggio dal suono incantevole. Canta per me, canta
perché certe parole non possono rimanere non dette.
Ho
sofferto ogni offesa, ma ora mi elevo al di sopra di tutto.
Sì,
il prezzo che ho pagato era tutto ciò che avevo, ma se
qualcosa
di buono può venire dal male, il passato può riposare in pace.
Quindi,
se vedete qualcuno che soffre e ha bisogno di una mano,
non
dimenticatemi, o se sentite una melodia triste di una mezza coda,
beh,
non dimenticatemi. Quando cantate “tanti auguri” a qualcuno che
amate,
o
vedete dei gioielli che vorreste fossero gratis, lasciate che brilli
come
se
fossi la vostra stella. Ma dimenticate ogni uomo che ho incontrato,
perché
hanno vissuto solo per controllarmi. Per un bacio hanno pagato mille
dollari,
ma
hanno messo all'asta la mia anima per cinquanta centesimi!
Ma
non hanno comprato me quando hanno comprato il mio nome ed ecco
perché
vi prego di non dimenticarmi. Ci sono persone che per brillare
non
possono farlo da sole, quindi proteggetele e abbiatene una cura
speciale,
abbiatene
cura.. Quando guardate il cielo con la persona che amate,
e
una luce brilla lontana, spero che vediate il mio viso e che diciate
una preghiera,
e,
vi prego, fatemi diventare quella stella”
Una
sua lacrima cade al suolo e io svanisco in essa. Una lacrima per
coloro che sono vittime dei demoni della giovinezza e della fama. Una
lacrima per chi, a proprie spese, ha imparato che i soldi non possono
comprare l'affetto di una famiglia, l'amore e il calore di una
persona che ti stringe a sé. Una lacrima per scoprirsi sveglio nella
propria stanza, davanti allo schermo di un pc che, fino a poco prima,
era un lenzuolo bianco. Mia mamma mi passa accanto e mi scuote i
capelli, via le cuffie dell'ipod dalle orecchie. «Dove sei stato di
bello, Michè?», dice prendendomi in giro. Sto al gioco, e rispondo:
«Da un'amica.. Da un'amica..».
Forse
è una bugia, ma sul viso sento l'ombra di un suo bacio. Dentro,
l'eco di un vuoto che - contro i luoghi comuni e la negligenza dei
bigotti col dito puntato - ho imparato a capire.
Nota:
Quest'idea mi è venuta per caso, quando mi sono accordo che
mancavano poche settimane al mio turno nello scrivere un post per
questa bella rubrica. Ahimè, non mi sono affidato alla lettura di
biografie o romanzi – amici e parenti, tuttavia, mi parlano
benissimo di Vivere e morire d'amore, di Alfonso Signori e La mia
settimana con Marilyn, di Colin Clark - ma mi sono lasciato ispirare
dallo splendido film con Michelle Williams e Eddie Redmayne (la mia
recensione qui) e dalla serie musicale Smash, a un cui brano (Don't
Forget me) è ispirata interamente la canzone intonata dalla mia
“amica per un giorno”.
Il titolo di quest'avventura riprende, invece, quello del romanzo Cercando Alaska, di John Green. Un'altra incognita bionda alle prese con gli spettri dei suoi giovani anni.
Il titolo di quest'avventura riprende, invece, quello del romanzo Cercando Alaska, di John Green. Un'altra incognita bionda alle prese con gli spettri dei suoi giovani anni.
Al
prossimo mese, Mr. Ink."
Ve lo avevo detto no che era stupendo e particolare questo ritratto?!
Vi ricordo che come sempre potete leggere questo articolo anche sui blog di.
Vi aspettiamo il prossimo mese con un nuovo ritratto.
Monica Book Land
Miki Miki In The Pinkland
Michele Mr.Ink. diario di una dipendenza
Francesa di Franci lettrice sognatrice
Miki Miki In The Pinkland
Michele Mr.Ink. diario di una dipendenza
Francesa di Franci lettrice sognatrice
Clara ThePauperFashionist
che bello ritrovarsi di nuovo!!! Buone vacanze Fede!!!
RispondiEliminaSplendido ritratto per la nostra amatissima rubrica! Buone vacanze tesora!
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