lunedì 4 aprile 2016

Ritratto di Signora: Frida Kalo






Eccoci qui con il nstro appuntamento mensile con Ritratto di Signora e per questo mese anbbiamo una sorpresa: la scrittrice Francesca Diotallevi ha accettato di scrivere un ritratto per noi.


Dolcissima e fragile. Indomita e visionaria. Il mio Ritratto di Signora vuole omaggiare una donna le cui ali spezzate non hanno impedito un volo spericolato sugli abissi insidiosi che la vita le ha riservato: la pittrice Frida Kahlo.
Una ragazzina come tante, forse più fiera, o solo più cocciuta, a cui è stata riservata la più difficile delle prove: morire e rinascere. Conoscersi di nuovo, e conoscersi in una veste nuova. Fare della propria debolezza un punto di forza, della propria sofferenza un modo per guardare il mondo con occhi diversi, lasciando dietro di sé una scia di dipinti capaci di incantare, di commuovere, di entrarti sottopelle. Capaci di offuscare anche il gigantesco marito-genio Diego Rivera, il più grande artista messicano dell’epoca.
A diciotto anni Frida, ragazza di buona famiglia, che studia per diventare medico, incappa nel Destino: il suo ha la forma di un tram, e le arriva dritto addosso. Frida è sull’autobus che da Città del Messico la sta riportando a casa, a Coyoacàn. Con lei c’è il fidanzato Alejandro.

 


Il tram si avvicinò con una lentezza esasperante. Lo vedemmo comparire all’improvviso all’angolo tra Cuahutemotzín e 5 de Mayo, quando stavamo per voltare in Calzada de Tlalpan. Sembrava non avere freni. Fu quella terrificante lentezza a darci la consapevolezza che non ci sarebbe stato scampo. Veniva verso di noi come qualcosa di fatale, a cui sarebbe stato vano opporsi.
Lo scontro fu inevitabile; poi, senza fretta, il tram iniziò a trascinare l’autobus fino a schiacciarlo contro un muro.
Ricordo lo stridore di freni, lo scossone iniziale, e la sorprendente elasticità dell’autobus, che sembrò reggere l’urto fino alla fine. Le ginocchia dei passeggeri seduti gli uni di fronte agli altri, sulle panche di legno, arrivarono quasi a toccarsi. Tutto tremò e traballò, in un precario equilibrio. Qualcuno cadde, altri fecero appena in tempo a farsi il segno della croce. Cercai lo sguardo di Alex, e quello che vidi nel fondo dei suoi occhi scuri non mi piacque. Fu in quel momento che iniziai ad avere davvero paura. Fu l’ultimo punto di contatto con quella che, fino a quel momento, era stata la mia vita.
Poi tutto esplose. L’autobus si spezzò a metà, la lamiera si accartocciò come se fosse fatta di cartapesta, le assi del fondo si sollevarono e si frantumarono in centinaia di schegge di legno. Qualcuno cadde nella voragine che si aperta al centro dell’autobus, e venne schiacciato dal tram, che sembrava incapace di arrestare quel suo placido incedere. Passò su di noi come una falce sul grano, non rimase nulla dopo.
Venni scalzata dal sedile e scaraventata con violenza contro la mia sorte. Qualcosa si frappose, in quel volo disperato. Qualcosa che aveva la durezza e lo spietato gelo del metallo. Mi trapassò da parte a parte, a ricordarmi che la vita è un dono e che basta un soffio a spegnerla. Poi ricaddi a terra, tra i cocci di vetro, il sangue e i pezzi di un’esistenza andata distrutta nel momento stesso in cui quel tram era apparso all’orizzonte.
Quello che ricordo, di quei pochi istanti in cui conservo una, seppur confusa, memoria, è l’oro. Il cielo era d’oro, sopra di me; erano d’oro i miei abiti strappati, i capelli impastati di sangue e le gambe nude, piegate in una strana posizione. Non sentivo dolore, non sentivo niente. Volevo solo restare a guardare quella nuvola di polvere dorata che si era sollevata quando il cartoccio dell’uomo che, solo pochi istanti prima, era in piedi vicino a me, conteneva.
«La bailarina, la bailarina!» gridò qualcuno, vicino a me. In quel momento non capii a cosa si riferissero. Ma dovevo offrire uno spettacolo bizzarro, ricoperta d’oro e con il corrimano di metallo del tram che mi trapassava il corpo. Mi aveva trafitto nello stesso modo in cui una spada trafigge un toro. Feci un sospiro, sentendo all’improvviso una grande stanchezza. Pensai al parasole che mi aveva prestato mia sorella Cristina. Pensai al balero dai bei colori che avevo comprato proprio quel pomeriggio e che tenevo nella cartella. Sperai che non si fosse sciupato; provai a cercarlo ma scoprii, un po’ sorpresa, di non averne le forze.
«Sta morendo?» domandò qualcuno, accanto a me.
«L’ambulanza sta arrivando» rispose un’altra voce.
«Non farà mai in tempo.»
Chiusi gli occhi. Quella che ero stata fino a quel momento, la Frida che per diciotto anni aveva abitato il mio corpo agile e aggraziato, morì su quella strada, palcoscenico su cui si era consumata la prima tragedia della mia vita.



Dicono che per costruire qualcosa di nuovo vada distrutto ciò che c’era prima. Anche per Frida andò così. La ragazza spensierata che fino a quel momento aveva vissuto la vita con entusiasmo e leggerezza scomparve per lasciare il posto a una creatura nuova, più profonda e inevitabilmente segnata. La nuova Frida ha uno sguardo serio, capace di guardare oltre, di indagare al di là della superficie delle cose. La nuova Frida conosce il dolore, quello che ti morde la carne senza tregua, e impara a conviverci. Ci convivrà per tutta la vita, che non sarà lunga, ma sarà una vita coraggiosa, sempre tesa a sfidare i propri limiti, quelli del corpo e quelli dell’anima.

Il bollettino medico, che un dottore dall’aria contrita fece a me e alla mia famiglia, scandendo bene ogni parola, aveva dell’incredibile. L’incidente mi aveva spezzato la colonna vertebrale in tre punti; mi si erano rotti anche l’osso del collo, la terza e la quarta costola. La gamba sinistra aveva riportato undici fratture e il piede si era dislocato e schiacciato. La spalla sinistra era uscita dalla sua sede e le pelvi si erano frantumate in tre punti. Il corrimano di metallo del tram mi aveva perforato l’addome ed era uscito attraverso la vagina. Più tardi ci avrei scherzato, dicendo che avevo perduto così la verginità.
Il fatto che fossi ancora viva era un miracolo, ma non tutti sembravano pensarla così. Mia madre si era chiusa in un ostinato mutismo, non aveva neanche la forza di venirmi a trovare. A chi glielo chiedeva rispondeva che sarebbe stato meglio che me ne fossi andata senza soffrire, invece di restare in vita ed essere costretta a quel supplizio.
Ed era un vero supplizio. Il dolore andava e veniva a ondate, senza darmi tregua. Completamente immobilizzata, me ne stavo a fissare il soffitto bianco dell’ospedale per ore, le lacrime che mi rigavano le guance a causa della sofferenza e della frustrazione. I miei spericolati voli di uccello erano finiti, restava solo il gesso che mi paralizzava e la struttura dentro a cui ero rinchiusa, simile a un sarcofago.
Di notte la morte danzava attorno a me, facendosi beffe della mia sciocca ostinazione. Ma non gliela avrei data vinta. Mai.

Frida sopravvive, dunque. Passa lunghi mesi immobilizzata a letto, rinchiusa in busti di gesso che le impediscono di muoversi. La pittura arriva in punta di piedi, a salvarla, a occupare uno spazio vuoto, a impossessarsi di ogni aspetto della vita di questa ragazza spezzata, ma intenzionata a non lasciarsi sopraffare. Nemmeno dall’abbandono del fidanzato, incapace di conciliare l’immagine della ragazza allegra e gioiosa con questa nuova Frida invecchiata, di colpo, di cent’anni.

Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre nella calda luce del tardo pomeriggio. Avevo le labbra secche, incollate tra di loro. Da mesi vivevo in uno stato di completo intorpidimento, non ricordavo più che giorno era, entravo e uscivo dal dormiveglia. Le mie notti erano popolate di incubi, le giornate diluite nella noia. Il dolore era una morsa continua, come un cane che azzannava senza tregua la mia carne. L’immobilità mi stava consumando. Mi sentivo una pianta che avvizziva in un angolo buio. Senza luce e pioggia che ridessero linfa al mio spirito inaridito mi sarei spenta fino a morirne.
Voltai il viso verso il comodino, in cerca di del bicchiere d’acqua con cui dare sollievo alla mia gola riarsa e mi accorsi che mio padre era al mio fianco. Seduto sulla sedia su cui si alternavano i membri della mia famiglia, e le poche persone che ancora venivano a farmi visita, mi osservava con i profondi occhi scuri sotto le folte sopracciglia nere.
«Papà» buttai fuori, con una smorfia di dolore, mentre cercavo, inutilmente, di sgranchire il mio corpo nel busto di gesso. Mi sentivo come un mollusco chiuso in un carapace troppo stretto e talvolta mi chiedevo se esistesse ancora la mia pelle, là sotto. Se ci fossero le ossa, se il mio cuore battesse ancora. Spesso, nel corso dei mesi, mi ero sentita tutt’uno con quel calco che mi avevano sagomato addosso, appendendomi per la testa per fare in modo che, mentre si asciugava, la mia spina dorsale fosse perfettamente dritta. Una statua vivente, ecco cos’ero. Un bizzarro esperimento che faceva di me una creatura a metà. Viva, eppure tenuta lontana da quella vita che avevo amato con ogni fibra del mio essere, bloccata in quel letto che era prigione e tomba di ogni mio sospiro. Un colibrì a cui avevano spezzato le ali, che abitava un pianeta di dolore, trasparente come ghiaccio. Avevo imparato ogni cosa di colpo; se le persone che mi circondavano erano cresciute un poco alla volta, io ero invecchiata in pochi istanti, e mi sentivo già stanca di tutto.
«Mia piccola Frida» mormorò mio padre, abbozzando un sorriso. «Come ti senti, oggi?»

Pensai a cosa avrei voluto rispondere, poi scossi la testa. Non volevo condividere con lui la mia sofferenza, né con nessuno della mia famiglia. Li avevo messi fin troppo alla prova; ogni loro patimento era un senso di colpa che andava ad accumularsi agli altri, quelli che, nonostante tutto, provavo per essere diventata perenne fonte di preoccupazione.
«Un po’ meglio di ieri e un po’ peggio di domani» dissi, per non angosciarlo più di quanto già non fosse.
«Be’, io credo che oggi ti sentirai un po’ più felice» disse lui, chinandosi per prendere qualcosa che aveva appoggiato per terra, al suo fianco. Quando si sollevò vidi che tra le mani stringeva una scatola. La conoscevo bene, era la scatola dei suoi colori a olio. Da bambina mi piaceva sedermi accanto a lui e vederlo sfoggiare le sue modeste capacità pittoriche. Si cimentava per lo più nei paesaggi che offriva Coyoacán. Io, che ero affascinata da qualunque cosa facesse mio padre, studiavo ogni sua mossa nei minimi dettagli, cercando di non perdermi nemmeno un passaggio di quel processo affascinante che rendeva una tela bianca un luogo popolato di immagini e colori. I colori, soprattutto, mi interessavano. Mi piaceva vedere il modo in cui potevano essere sfumati, il modo con cui davano vita alle forme.
«I tuoi colori a olio?» domandai, perplessa. Sapevo che li teneva con grande cura e ne era molto geloso.
Lui annuì: «Ora sono tuoi. Io e tua madre abbiamo pensato…» si bloccò, indeciso su come proseguire. «Da bambina ti piaceva molto disegnare. Potrebbe essere un modo di passare il tempo.»
Levai le sopracciglia, stupita da quella nuova prospettiva che mio padre mi stava offrendo. Di tempo ne avevo fin troppo a disposizione. Avrei accolto con gioia qualunque diversivo si fosse frapposto fra me e quella noia spietata che mi avvelenava le giornate, portandomi a fissare il baldacchino del mio letto spesso per ore.

Mia madre, in un impeto di intraprendenza, mi aveva fatto preparare da un falegname un cavalletto grazie al quale avrei potuto dipingere stando sdraiata. Era un diversivo interessante e mi ci accostai con un entusiasmo che non avvertivo da tempo, salvo bloccarmi, dopo pochi minuti, davanti all’ineluttabilità della tela bianca.
Mi guardai intorno, smarrita. Ero sola. In grembo avevo i colori a olio di mio padre, un lapis con cui tracciare il bozzetto e un paio di pennelli un po’ spelacchiati, ma più che validi per quello che mi proponevo di fare. Sollevai la matita e la soppesai nel palmo per alcuni secondi, premendo la mina contro i polpastrelli. La avvicinai alla tela, poi la scostai. La mia mano rimase sospesa a mezz’aria. Cosa avrei dovuto dipingere, esattamente? Da bambina disegnavo ciò che mi suggeriva l’immaginazione. Spesso, nei momenti di solitudine, avevo tracciato con la punta l’indice la sagoma di una porta sulla condensa di un vetro appannato. Da quella porta ero scappata tante volte per raggiungere la mia amica immaginaria, una bambina della mia età con cui condividevo i miei sogni. Mi chiesi se quella bambina esistesse ancora, da qualche parte dentro di me. Se fosse cresciuta e che aspetto avesse, dopo tutti quegli anni. Riportai la mano alla tela e traccia un ovale un po’ incerto, poi provai ad abbozzare un naso e degli occhi. Mi bloccai di nuovo. Non riuscivo a proseguire senza un modello a cui affidarmi, ma non avrei saputo a chi domandare di posare. Ebbi la risposta ruotando il viso verso la cassettiera appoggiata al muro e sovrastata da una specchiera. Chi, meglio di me, poteva restare fermo nella stessa posizione, senza muovere un muscolo, per ore, giorni, mesi?
Nei giorni successivi i miei genitori fecero montare uno specchio sul lato inferiore del baldacchino che sovrastava il mio letto. Eccomi lì, il volto incavato e gli angoli della bocca piegati all’ingiù dall’inerzia. Solo gli occhi trasmettevano una ferma volontà e mi ricordavano che, nonostante tutto, ero più viva che mai. Non era il corpo a decidere, ma lo spirito, e il mio era ancora forte e combattivo.
Era un modo di ricominciare e ricominciavo da me, studiandomi in uno specchio, andando oltre quel corpo che era prigione e ancora di un’anima che sognava solo il cielo e la sua sconfinatezza.
Nel momento stesso in cui stesi la prima pennellata di colore, per sovrastare il bianco che mi opprimeva, perché mi ricordava quello dell’ospedale, avvertii un frullare di ali. E capii che la Pelona non mi aveva piegato, non ancora.
Dipinsi seguendo il mio istinto; non avevo compiuto studi in materia, se non qualche sporadica lezione acquisita dall’incisore Fernando Fernández, un caro amico di mio padre presso cui avevo lavorato per un breve periodo, per mettere da parte qualche soldo.
Lentamente, dalla tela che avevo davanti, emerse un volto, il mio. Emersero gli occhi pieni di vita, le labbra atteggiate in un lieve sorriso, i capelli raccolti e il collo lungo. C’era qualcosa di aristocratico nel modo in cui mi ero raffigurata, che dovevo all’arte italiana che Fernández mi aveva mostrato nel suo studio. Una Madonna rinascimentale?
No, non ero una santa. Mi dipinsi con un abito di velluto rosso dalla scollatura vertiginosa. Il quadro sarebbe stato un regalo per Alex, un dipinto che gli avrebbe ricordato cosa si era lasciato alle spalle abbandonandomi in quel letto messicano mentre lui viaggiava per l’Europa.
Il mio primo approccio all’arte venne alimentato dal senso di rivalsa. Una rappresaglia alla cattiva sorte che mi perseguitava e che mi aveva tolto tanto.
Guardai il dipinto. Non era eccelso, era anzi un primo tentativo molto modesto, ma esprimeva qualcosa: un bisogno di risarcimento che si esprimeva attraverso linee e colori fino a dare voce alla mia sete di vita.
In quel momento, con le dita ancora sporche di colore e l’odore di olio e trementina che aleggiava nell’aria, mi resi conto di essere rinata. Attorno, improvvisamente, avevo un mondo intero; come quando, da bambina, mi bastava disegnare una porticina nella condensa di un vetro per viaggiare oltre me stessa.
L’arte era la strada. L’arte era la vita.
Frida, scrissi sotto al ritratto.
Sì, Frida, la nata due volte.


Frida torna a camminare, e torna ad amare, innamorandosi del gigante (fisicamente e artisticamente parlando) Diego Rivera. Lo sposa, contro il parere contrario dei genitori, che definiscono la loro unione l’incontro tra una colomba e un elefante. Sopporterà, oltre ai propri problemi di salute, anche i dolori inferti al suo cuore dalla maternità negata a causa dell’incidente, e dalla leggerezza del marito, che non perde occasione per tradirla, pur amandola più di qualunque altra cosa. L’ultimo tradimento viene consumato con la sorella minore di Frida, Cristina. È la goccia che fa traboccare il vaso, Frida non regge il colpo. La coppia divorzia.

Io sono dolore. Poso le mani sui reni, cercando di raddrizzare la schiena; è come raddrizzare un albero abbattuto dalla tempesta. Fa male, ma alla sofferenza sono abituata da tanto, troppo tempo. Se guardo indietro non riesco a ricordare cosa significhi vivere senza l’impressione che il corpo, che minaccia di disfarsi a ogni respiro, si tenga invece insieme per miracolo. È questo che la gente sussurrava di me, dopo il primo dei due brutti incidenti che mi sono capitati nella vita: è una miracolata. Io, però, non ci ho mai creduto. La mia salvezza, se di salvezza si è trattato, l’ho vissuta come una condanna. Se è vero che per ogni cosa c’è un prezzo da pagare, il mio debito per essere sopravvissuta credo di averlo saldato da un pezzo. Questo la pelona dovrebbe saperlo.
Appoggio il pennello sulla tavolozza, il quadro che ho davanti è uno dei più grossi che abbia mai dipinto. Lo volevo così, ingombrante, impossibile da ignorare. Due Frida mi osservano dalla tela. Due me stessa con un solo cuore, diviso a metà. Una è seria, imperturbabile. Nella mano sinistra stringe una foto di Diego bambino, da cui parte una vena che da lui prende nutrimento. La destra è aggrappata alla mano dell’altra Frida, la Frida spaventata, quella che sta morendo dissanguata. La pinza da chirurgo con cui tenta di fermare l’emorragia non basterà a salvarla. Il sangue le macchia la gonna, sbocciando come fiori cremisi sul pesante cotone bianco.
Lo osservo con aria critica, accendendo una sigaretta. Il fumo si solleva davanti a me, componendo e scomponendo immagini. Diranno che è macabro, spaventoso, funesto. Sì, lo è. È come l’amore, la vita, la morte. È speranza delusa, affetto tradito e desiderio frustrato. È ciò che sono io in questo momento: una donna divisa. Divorziata.
Penso a cosa significa questa parola, per me. È il fallimento di un sogno in cui ho creduto con cieca determinazione. È un naufragio che mi lascia senza forze. Tante volte mi sono rialzata nella vita, e non parlo per metafore. Ci ha provato, la sorte, a spezzarmi le gambe e la schiena. Mi ha lasciato inerme, alla deriva di un mare in tempesta. Ma non è bastato.
Spengo la sigaretta e ne accendo un’altra. Dicono che fumi troppo, e che beva troppo. E che sia troppo magra, troppo debole e cagionevole per sopportare tutto questo. Ma non mi interessa. Guardo il quadro che ho davanti, l’ennesimo autoritratto che mi aiuta a fare chiarezza, a scorgere me stessa oltre la fragilità della mia pelle. Qui sono colore vibrante ed emozione. Qui sono Frida, molto più di quanto non lo sia nella vita vera. Vivo attraverso una tela, oltrepasso i confini dei mondi, fisso i sentimenti con una sfumatura, in modo che non mi sfuggano mai più, che restino a ricordarmi chi sono e cosa provo.
Non sono stata sempre così. C’è stato un tempo in cui tutto questo non aveva importanza, volevo solo vivere, diventare medico, essere felice. Volavo con la spensieratezza di un uccello dalle ali robuste. Un uccello che non teme venti e tempeste.
Poi c’è stato l’incidente, il primo, quello che ha deciso il mio destino. Mi ha tolto tanto, ma in cambio mi ha donato uno sguardo nuovo, capace di guardare oltre; mi ha donato l’arte e la consapevolezza che ogni istante può essere l’ultimo.
Il secondo incidente, di gran lunga il peggiore, è stato mio marito Diego.

Nonostante tutto, Frida e Diego sembrano destinati a stare insieme, creati per appartenere l’uno all’altra. Si risposano, ed è Diego ad assistere l’amata moglie nei suoi ultimi anni, che sono fatti di atroci sofferenze fisiche. Frida ormai non si alza più dal letto. La colonna vertebrale è a pezzi, le hanno amputato una gamba a causa della cancrena, e tutto il fisico inizia a cedere.
Prima di andarsene Frida annota nel suo diario: Spero che la fine sia gioiosa, e spero di non tornare mai più.
Di lei rimangono i suoi quadri, compagni di viaggio, testimoni intimi, talvolta dolenti, altre surreali, di una vita vissuta fino all’ultimo respiro con coraggio e tenacia.
Una funambola sospesa ad altezze vertiginose; un corpo traditore, creato per contenere sofferenza, e una mente libera, in grado di librarsi sopra le brutture della quotidianità. Questo è stata Frida Kahlo, un’anima bella.


Ho adorato ogni singola parola del ritratto che Francesca ha scritto per noi, le parti in corsivo non sono, come si potrebbe pensare delle citazioni, ma il suo modo di raccontarci la vita di Frida in maniera molto profonda.

Come sempre potete trovare il ritratto anche sui blog di 
Jennifer BTS of my Soul

Grazie Fede, Monica, Miki, Francesca, Daniela, Jennifer

venerdì 1 aprile 2016

"Cookfins" al Irish Cream

Avevo voglia di cucinare biscotti, ma non volevo i classici biscotti di frolla, così ho cercato tra i miei appunti se mi ero segnata qualcosa, alla fine mi sono spuntati dei cookiee all'irish cream.
Buoni! Già avevo l'acquolina in bocca solo all'idea.
Bene, in casa ho tutto e si può cominciare.
Sforno qualcosa come 40 biscotti e noto che sono molto soffici, ma come sappiamo bene i cookies devono raffreddare pirma di raggiungere la giusta consistenza.
Ma niente la consistenza rimane comunque sofficie, al che commentando con i miei dico "forse devo ritoccare un po' la ricetta, così sono una via di mezzo tra i cookies e i muffins", in quel momento salta su mio nipote, 4 biscotti in bocca e uno per mano (ho come avuto l'impressione che aprezzasse) "Son cookfins".
Insomma ho provato a rifrli aggiustando la ricetta, giusta consistenza per un cookie, ma molto meglio la versione "sbagliata".


Ingredienti :
225 gr burro
300 gr zucchero
300 gr farina
40 gr cacao amaro
2 uova
8 cucchiai di Irish Crea
1 e 1/2 cucchiaino di lievito
1 cucchiaino di estratto di vaniglia

Preparazione:
Lavorate a crema il burro con zuccchero, uova, vaniglia e Irish Cream.
Aggiungere la farina setacciata con il cacao e il lievito (se volete la consistenza dei cookies mettetene solo 1/2 cucchiaino).
Quando tutto è ben impastato lasciare riposare in frigo coperto per una paio d'ore.
Formare delle palline grandi cme noci con l'impasto e posizionarle su una teglia sopra la carta forno.
Cuocere a 180° per 10 minuti.
Volendo si pssono accoppire a due a due con nel mezzo uno strato di crema a base di mascarpone o formaggio spalmabile, per creare dell Woopie-Pie (tipo queste)