lunedì 4 luglio 2016

Ritratto di Signora: Shonda Rhimes

Luglio è arrivato e con lui il sole e il caldo afoso (oggi no, oggi è un po' grgio), ed anche il lunedì è arrivato. E come ogni prmo lunedì del mese noi ci siamo.

Siamo nel Gennaio 1970, quando nasce una bambina inconsapevole che un giorno sarebbe diventata una delle più importanti donne della televisione americana - se non addirittura mondiale.
Shonda Rhimes è una produttrice, regista e sceneggiatrice statunitense, che al giorno d'oggi ha letteralmente preso possesso del palinsesto televisivo grazie alle sue rinomate opere: Grey's Anatomy, Scandal, How to Get Away with Murder... giusto per citare le tre più importanti.

Vissuta in una zona residenziale di Chicago, figlia di Vera P., rettore universitario, e Ilee Rhimes Jr.,
insegnate, Shonda è la più piccola di sei figli, con tre sorelle e due fratelli.
Laureata al Dartmouth College nel 1991, con master in belle arti conseguito anni dopo alla scuola di cinema e televisione della University of Southern California, ha da sempre avuto una grande passione nel raccontare storie.
A differenza di buona parte delle persone all'interno dell'industria cinematografica statunitense, Shonda si è dovuta costruire un futuro con le sue sole forze: terminati gli studi era uno dei tanti sceneggiatori disoccupati in attesa di una botta di fortuna, ma questo non l'ha fermata. Ha svolto diversi lavori come direttore d'ufficio e consulente in un centro per l'impiego, insegnando a persone problematiche e senza fissa dimora delle abilità lavorative.
La sua carriera in ambito cinematografico inizia nel 1995, quando ha ottenuto il ruolo di direttore alla ricerca per un documentario vincitore del premio Peabody Award - premio annuale ed internazionale dato a programmi di informazione radiofonica e televisiva.
In seguito a diversi lavori considerati di nicchia, tra cui il ruolo di autore nel film Crossroads con Britney Spears, nel 2004 diventa sceneggiatrice del film Principe azzurro cercasi, con le bellissime e piene di talento Anne HathawayJulie Andrews.
Arriviamo quindi all'ormai lontano 27 Marzo 2005 quando, come ripiego durante le pause di mezza stagione, debutta Grey's Anatomy, prima opera di grande successo della neonata casa di produzione ShondaLand - creata dalla stessa Shonda.
Con Grey's Anatomoy, e in seguito con tutti i suoi prodotti televisivi, Shonda ha attuato una vera e propria rivoluzione culturale; tramite storie che girano intorno a donne come protagoniste, di forte personalità e spesso afroamericane, e la scelta di cast che rappresentano ogni etnia della società statunitense.



«Quando ho creato la prima serie tv ho fatto una cosa che consideravo normale: essendo nel Ventunesimo secolo, mi sono adoperata affinché il mondo della fiction rispecchiasse il mondo di oggi. L'ho riempito di persone di tutti i colori, generi, estrazioni sociali e orientamenti sessuali.»

Non è un caso infatti se le vengano attribuiti diversi meriti, tra i quali l'aver portato sullo schermo delle protagoniste di carattere e molto complesse, poste davanti decisioni scomode e impopolari, come quella di non sposarsi, non avere figli, e addirittura abortire - come nel caso del chirurgo Cristina Yang.

«[...] non siamo tutti uguali. La Bailey è una donna in carriera con famiglia, felice di questa sua condizione, mentre la Yang è una donna in carriera che non ha intenzione di sposarsi. Non ci sono, non ci dovrebbero essere classifiche, non ci sono o non ci dovrebbero essere giudizi su questo tipo di scelte.»

Inoltre, e non è da poco soprattutto ai giorni nostri, Shonda ha dato voce a donne di colore vincenti e di potere. Quello che sta facendo per le donne afroamericane, ma anche per le donne in generale, è paragonabile al lavoro svolto da figure più conosciute come Michelle Obama e Beyoncé; la vittoria di Viola Davis, protagonista in Le regole del delitto perfetto nei panni dell'avvocato Annalise Keating, agli Emmy ne è la prova - prima donna di colore vincitrice nella storia.


Accertato il fatto che stiamo parlando di una donna con gli attributi, è però doveroso precisare che fino a un anno fa poche persone sarebbero riuscite e parlare di lei in modo così specifico perché, che ci crediate o no, Rhimes è sempre stata una donna insicura e molto timida.
Nel libro pubblicato nel 2015, L'anno del sì, la produttrice parla molto di se stessa e di tutte le sue

insicurezze; spiega del suo carattere introverso e riservato, dell'avversione nei confronti di interviste, apparizioni e discorsi in pubblico; racconta di come una semplice conversazione con sua sorella l'abbia indotta a cambiare, svolgendo un grande lavoro su se stessa che le ha permesso di uscire dalla comfort zone, imparando a dire sì.

«L'unico modo per ottenere dei risultati è lavorare. Se qualcosa ti ferma, vai avanti lo stesso.»

Ecco cosa insegna agli studenti in un discorso tenuto durante il suo "anno del sì", discorso nel quale ricorda ai giovani di non limitarsi a sognare, attendendo le grandi occasioni. È proprio ciò che lei ha fatto, continuando a lottare per ciò che ama e che desiderava fare fin da bambina, nonostante le sue paure, nonostante tutte le difficoltà incontrate, e oggi può affermare con grande orgoglio di esserci riuscita.
Alla fine del libro, nei ringraziamenti, Shonda riporta una simpatica conversazione con l'attrice che interpretava Cristina Yang, Sandra Oh:

«Come facevi a dire le cose che volevi dire prima di cambiare vita?», chiede Sandra.
«Le facevo dire a te», risponde Shonda.

Ora abbiamo quindi una grandissima donna, madre single di tre figlie, capace non solo di trasmettere forza alle donne di tutto il mondo attraverso i suoi meravigliosi personaggi, ma in grado di dimostrare che gli strumenti per il raggiungimento della felicità sono tutti custoditi all'interno di noi stessi... dobbiamo solo trovare il coraggio e la volontà di tirarli fuori.



«Non avere paura, vivi con gioia e diventa la tua persona.»

Jennifer




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lunedì 6 giugno 2016

Ritratto di Signora: Emma Waton

E come sempre buon lunedì.
E come sempre in ritardo, sta diventando una tradizione ormai.
E come sempre vi lascio al nuovo belissimo ritratto scritto per noi oggi da Francesca.


Questo mese voglio parlarvi di un'altra ragazza che - a parer mio – è un modello positivo per i giovani. Sto parlando di Emma Watson, il cui nome completo è Emma Charlotte Duerre Watson.
Emma nasce a Parigi il 15 aprile 1990 e vive in quella bellissima città fino all'età di 5 anni, quando i suoi genitori divorziano e lei si deve trasferire nell'Oxfordshire insieme alla madre alternando delle settimane a casa del padre a Londra. Il suo interesse per la recitazione nasce a scuola ed è lì che partecipa ai primi drammi ma il suo primo ruolo davvero importante arriva con il primo film di Harry Potter ed è qui, con il ruolo di Hermione, che ho avuto il piacere di vedere recitare questa giovanissima attrice che in comune con il suo personaggio ha la testa sulle spalle - pensate che mentre Daniel Radcliffe (Harry)  raccontava delle sue poesie e Rupert Grint (Ron) voleva investire in un furgoncino per gelati, lei parlava di università e studi economici e non era sicura che la sua strada fosse fare l'attrice – e il voler battersi per ciò che è importante. La carriera di Emma continuerà con i film Marilyn, Noi siamo infinito, che mi ha commosso, dove i tre protagonisti vivono un processo di crescita, Bling Ring, Noah, Regression, Colonia, dove interpreta una ragazza che va a salvare il suo amore e l'ultimo La Bella e la Bestia in cui interpreterà Belle, che sono molto curiosa di vedere.

<<(...) dopo due thriller piuttosto bui, "La bella e la bestia" si è rivelato l’antidoto perfetto: romantico, gioioso, pieno di canzoni... Sì, la danza delle tazzine era proprio ciò di cui avevo bisogno... >>. 

Emma oltre ad essere un'attrice è impegnata anche nel sociale. Nel 2009 viene coinvolta come
consulente creativo per People Tree, un marchio di moda equosolidale e con loro nel 2011, dopo una visita ai bassifondi Dhaka in Bangladesh, crea una linea di moda sostenibile.

Dopo aver visto la baraccopoli di Dhaka e le condizioni in cui queste persone vivono e lavorano per produrre fast fashion, direi (…) che questo non è il modo in cui dovremmo fare vestiti nel mondo moderno. Questi lavoratori non hanno diritti e lavorano ogni ora del giorno solo per sfamare le loro famiglie. Il commercio equo e solidale offre alle famiglie la possibilità di stare insieme (…) e di essere pagati con un salario equo. Esso (…) non toglie la loro dignità. 
 
Al Met Gala di quest'anno Emma si è presentata con un abito stupendo realizzato con plastica riciclata e tessuto biologico nato dalla collaborazione tra Calvin Klein ed Eco-Age che ha portato alla creazione del nuovo tessuto Newlife fatto al 100%  con bottiglie di plastica riciclate.

La plastica è uno dei principali inquinanti del pianeta. Essere in grado di riutilizzare questo tipo di rifiuti e incorporarlo nel mio abito per il Met Gala dimostra che potere la creatività, la tecnologia e
la moda possono avere lavorando insieme. 

Emma crede che le persone dovrebbero apprezzare ciò che possiedono e da questo nasce la sua campagna #30wears, che invita ad utilizzare quando più possibile (almeno 30 volte), magari rivisitandoli, gli abiti acquistati.
Il 7 luglio 2014 viene nominata Goodwill Ambassador, ambasciatrice di buona volontà dall'UN Women, l'organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa della parità di genere e la direttrice esecutiva e sottosegretario generale dell'agenzia dichiara come l'intelligenza e la passione dell'attrice consentiranno di far giungere ai suoi coetanei il messaggio di uguaglianza di UN Women. In questo ruolo pronuncia presso l'ONU il discorso per il lancio della campagna #HeforShe evidenziando il ruolo degli uomini nella promozione della parità di genere e si dichiara femminista.

(…) Ho visto uomini resi fragili e insicuri dalla percezione distorta di cosa sia il successo maschile.
Neanche gli uomini hanno i diritti della parità di genere. Non si parla molto spesso di come gli uomini siano imprigionati negli stereotipi di genere che li riguardano, ma vedo che lo sono. E quando se ne saranno liberati, le cose cambieranno di conseguenza anche per le donne. Se gli uomini non devono essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno in dovere di essere sottomesse. Se gli uomini non devono avere il controllo per sentirsi tali, le donne non

dovranno essere controllate. Sia gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere sensibili. Sia gli uomini che le donne devono sentirsi liberi di essere forti: è tempo di pensare al genere come uno spettro, e non come a due insiemi di valori opposti. 
 Qui potete trovare il discorso integrale.

Infine pochi mesi fa ha fondato su Goodreads un club letterario sui temi dei diritti delle donne, Our shared shelf, in cui ogni mese viene scelto e letto un libro e poi ognuno può esprimere la sua opinione sul libro. Il giorno in cui ha aperto il club ha scritto:

Cari lettori, in qualità di membro delle Nazioni Unite per le Donne, ho iniziato a leggere tantissimi libri e saggi sull'uguaglianza, tutti quelli che le mie mani sono capaci di tenere. Ma ci sono così tante bellissime cose là fuori! Divertenti, d'ispirazione, tristi, che inducono alla riflessione, capaci di rafforzarci! Ho scoperto così tanto che, certe volte, sento la mia testa esplodere… Così ho deciso di dare vita a un Club del libro Femminista, poiché voglio condividere quello che sto imparando e ascoltare ciò che voi pensate.

Ammiro Emma Watson per tutto ciò e chissà cos'altro riuscirà a fare nei prossimi anni.
Francesca

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domenica 22 maggio 2016

Fiori di zucca al forno

Adoro i fiori di zucca, letteralmente, potendo li cucinerei in continuazione.
Fritti in pastella son fantastici, chiaramente. ma lo sappiamo tutti che il fritto non è esattamente salutare, e a dire la verità io non amo particloramente friggere: unto ovunque, odore di fritto che si attacca a vestiti e capelli, tutta la casa che puza di fiera, insomma a casa cerco di evitare il più possibile di farlo. Ecco perchè ho fatto questo esperimento, che è assolutamete promosso, non vorrei essere azzardata, ma preferisco questa versione ai classici fiori in pastella

Ingredienti:
15 fiori di zuca
un panino piccolo (oppure del pangrattato)
1 spicchio di aglio
50 g di parmigiano grattugiato
50 g di provola
50 g di prosciutto cotto
olio
sale
4 o 5 foglie di basilico

Procedimento:
Mettete nel tritatutto il pane, il prosciutto, i formaggi, l'aglio, il basilico e un cucchiaio di olio e tritare il tutto.
Lavate e pulite i fiori, e, aiutandovi con un cucchiaino, riempiteli con il trito, chiudeteli bene e posizionateli su una teglia coperta di carta da forno.
Spennellate la superficie dei fiori con un poco di olio mescolato con dell'acqua (io mi sono procurata uno di quegli spruzzini apposta per nebulizzare l'olio, in modo da distribuirlo uniformemente e in maniera non eccessiva, ma un pennello va benissimo)
Infornate a 180° per circa 20 minuti




giovedì 19 maggio 2016

S'mores Brownies


Gli S'mores sono quei "dolci" che si vedeno spesso nei film o nei telefilm, quando stanno tutti intorno al fuoco di un campeggio e fanno abbrustolire i marshmallow e poi belli caldi e bollenti li posizionano tra due biscotti con un pezzo di cioccolato che si fonderà con il calore. Ora abbiate il coraggio di dirmi che non avete sempre voluto provarci se avete il coraggio?!
 Ed ecco perchè quando ho visto questa ricetta lìunica cosa a cui sono riuscita a pensare è stata "o mio Dio DEVO provarla"

Ingredienti:
per la base:
- 250 gr di biscotti secchi
- 150 gr di burro
per il brownies:
-175 gr di burro
-2 cucchiai di cacao amaro
-200 gr di cioccolato
-100 gr di farina
-1 cucchiaino di lievito
-2 uova
-200 gr di zucchero
per la copertura:
-150 gr di marshmallow
-50 gr di goccie di cioccolato

Preparazione:
Sbriciolate finemente i biscotti e mescolateli con il burro fuso (io uso sempre il tritatutto che faccio più in fretta, ma va bene anche un pestacarne o un mattarello).
Mettete i biscotti sul fondo di una teglia e pressateli bene in modo da creare una base compatta.ù
Fate sciogliere a bagnomaria il cioccolato spezzettato con il burro a pezzi e il cacao, mescolando in modo che tutti gli ingredienti si amalghimino bene.
Montate le uova con lo zucchero e un pizzico di sale.
Unite il cioccolato e infine la farnina setacciata con il ilevito.
Versate l'impasto sulla base di biscotti.
coprite a soperficie della torta con i marshmallow e distribuite sulla superficie un po' di goccie di cioccolato.
Infornate a 180°per 30 minuti.
Sfornate fate raffreddare la torta prima di tagliarla.



lunedì 16 maggio 2016

Seitan con verdure

A volte, tra una torta e una lasagna, mi piace provare a fare finta di cucinare anche del cibo sano, così giusto per illudersi, ahahaha!
Comunque c'era in frigorifero questa confezione di seitan, e ne ho approfittato per un piccolo esperimento veg!

Ingredienti:
-250 gr di seitan
-1 melanzana
- 2 zucchine
- 2 cipolle
-7/8 pomodorini 
-olio
-paprika

Procedimento:
Tagliate a cubetti la melanzana.
Mettete una padella sul fuoco e una volta calda cominciate a farci saltare le melanzane senza aggiungere olio, in modo che comincino a perdere l'acqua.
Quando sono rosolate aggiungete un filo d'olio, e le cipolle affettate sottilmente, fate  rosolare e aggiungete anche la zucchina e il seitan, sempre a cubetti. e i pomodorini tagliati a metà.
Io preferisco che le zucchine rimangano un po' croccanti quindi non le faccio cucere molto e soprattutto non aggiungo acqua.
 Prima di togliere dal fuoco regolare di sale e cospargere con un cucchiaino di paprika (o peperoncini, o curry, insomma usate le spezie che preferite)



venerdì 13 maggio 2016

Rose di Zucchine

Avevo visto questa ricetta, ma in versione dolce, la volevo provare da tanto, ma non avevo mai avuto l'occasione, poi, qualche sera fa, davanti al frigorifero cercando un'idea per cena, ho visto un rotolo di pasta sfoglia e ho pensato di provare.
ho rivisitato un po' la ricetta dolce e il risultato devo dire che è assolutamente promosso

Ingredienti.
pasta sfoglia
1 zucchina
scamorza affumicata a fette

Procedimento:
Prendete la pasta sfoglia dal frigo e lasciatela una mezz'ora a temperatura ambiente in modo che non sia troppo fredda quando la srotolerete, evitando così che si rompa.
Tagliate la pasta sfoglia a strisce di circa tre cm.
Lavate la zucchina, spuntatela e affettatela molto sottilmente per la lunga (l'ideale sarebbe utilizzare l'affettatrice o la mandolina).
Prendete una striscia di pasta e poggiatevi sopra una fetta di zucchina, lasciando la parte inferiore libera, circa un cm., se la fetta di zucchina non fosse abbastanza lunga utilizzatene una seconda, o parte di essa, in modo da coprire tutta la pasta.
Sopra la zucchina mettete delle strisce di scamorza.
Ripiegate l'orlo inferiore della pasta sfoglia sopra il ripieno, e poi delicatamente arrotolate il tutto.
Mettete le rose nella teglia per muffin precedentemente oliata e infornate a 180° per circa 25 minuti



martedì 10 maggio 2016

Overnight Porridge mela e cannella

Ultimamente mi sono dedicata alla colazione.
Qando riesco, mi ricordo e decido di superare la pigrizia di stare seduta sul divano, preparo qualcosa la sera prima, in modo che poi quando mi alzo la mattina sia pronto da mangiare senza ulteriori lavorazioni.
Ecco perchè quando dopo una breve ricercasu google ho scoperto che il porridge era la moda del momento, ho deciso di provarlo anche io, ma nella sua versione fredda, per l'appunto l'overnight porridge.
Si tratta semplicemete di fiocchi di avena messi in amollo nel latte/yogurt/yogurt greco la sera prima, durante la notte l'avena assorbirà il liquido e si ammorbidirà creando la classica pappetta del porridge, che poi può essera guarnitacn frutta, cioccolato, semi, aromi.

Ingredienti:
30 g fiocchi di avena
1 mela
10 g di semi di chia
130 ml di latte 
1 cucchiaino di cannella

Procedimento:
Sbucciate la mela e grattuggiatela.
In una citola mescolate la mela con i fiocchi d'avena, il latte (io uso il latte parzialmente sceremato ma potete usare quello che preferite), la canella e i semi di chia.
Coprite il tutto e lasciate in frigorifereo a riposare per tutta la notte.
I fiocchi assorbirano il liquido del latte ammorbidendosi e la chia rilascerà una sorta di gelatina che addenserà un po' il tutto.

sabato 7 maggio 2016

Lasagne patate e salsiccia

Lasagne, lasagne, lasagne.... chi  non ama le lasagne.
A volte però cerco delle alternative, il mio obiettivo solitamente è quello di semplificare e snellire una lavorazione comunque laboriosa nella sua essenzialità, a volte ci riesco, a volte meno, ma quando arrivo ad un buon risultato la cosa direi che è pressochè irrilevante.

Ingredienti:
2 o 3 patate
400 g di salsiccia
2 mozzarelle di bufale
500 ml besciamella 
formaggio grattugiato
lasagne (io uso quelle fresche, ma vanno bene quelle che preferite)
sale

Preparazione:
Per prima cosa lessate le patate e fatele raffredare.
Tagliate la mozzarella a fetta e fatele sgoccilare su un foglio di carta da cucina in modo da togliere parte del liquido.
Togliete la pelle alla salsiccia e fatela rosolare aiutandovi con una forchetta a sbriciolarla.
Una volta cotta, scolate la salsiccia dal suo grasso e mescolatela con la besciamella
Pelate le patate e tagliatele a fette.
Prendete una teglia e stendeteci uno strato sottile di besciamella, fate il primo strato di pasta delle lasagne, e copritelo con le patate a fette e la mozzarella (colendo se condo me ci starebbe benissimo del rosmarino, ma io non ne avevo), coprite cn un nuovo strato di pasta, sopra stendete la metà della besciamella e una bella spolverata di formaggio grattuggiato. Ripetete con pasta, patate e mozzarella, pasta e la restante besciamella. Ricoprite il tutto con abbondante formaggio grattugiato.
Cuocere in formo caldo per 20 minuti circa e poi passarlo una decina di minutti sotto il grill in modo da creare una crosta sulla superficie.




Mescolate la sbriciolata con la besciamella

lunedì 2 maggio 2016

Ritratto di Signora: Sampat Pal


Buon lunedì, e benvenuto Maggio.
Eccoci come di consueto con la nostra rubrica, e questo mese tocca a me.


Anni fa ho letto un libro al quale forse non ho prestato l'attenzione che avrei dovuto.
Ora non sarei in grado di citarne brani o stralci, ma la storia è una di quelle che rimane impressa nella mente.
“Con il sari rosa”, la storia di Sampat Pal e della sua Pink Gang.
È la storia di una bambina, figlia di gente povera e analfabeta che aiuta la famiglia lavorando nei campi. La bambina, però, pur consapevole dell’importanza del suo lavoro, si lascia presto distrarre da alcuni coetanei che vanno a scuola. Sampat sa che la scuola è solo per i più ricchi, mentre la sua famiglia è più che povera, appartiene a una delle caste più basse dell’India, è quasi un’intoccabile. E così la scuola, diventa per lei un paradiso proibito, nel quale non le è concesso entrare. Perché non fa parte di quel mondo. Perché i suoi genitori non capirebbero. Eppure lei ha voglia di imparare. Ne ha così tanta che trova uno spazio dal quale riuscire a sentire le parole del maestro e imparare, finalmente, l’alfabeto. La sua determinazione però la porta a trovare l'appoggio di uno zio, che alla fine le permette di frequentare le lezioni.
La sua vittoria ha però vita breve.
A soli nove anni, come tradizione nella poverissima regione dell'India dove vive, viene data in sposa ad un uomo con più del doppio dei suoi anni, un uomo che non conosce, che non ha mai visto. La convivenza col marito inizia solo tre anni dopo, e ancora tredicenne da alla luce il primo dei suoi figli.
La consuetudine vuole che lei sia silenziosa e si sottometta al marito, alla suocera e ai soprusi di chiunque appartenga a una casta più elevata. Perché così si deve fare. Perché quello, le dicono, è il suo destino.
Ma Sampat non ci sta, è orgogliosa, e non accetta di subire senza ribellarsi, e quando all'ennesima angheria reagisce la suocera la caccia di casa con i due figli nati nel frattempo.
Potrebbe essere la fine di tutto e invece è il momento in cui le cose cambiano. È un nuovo inizio.
L'idea su cui si basa è che le leggi non devono essere riscritte, ma semplicemente applicate.

in teoria le donne sono uguali agli uomini.
Siamo un paese libero, con leggi moderne, e la Costituzione ci accorda i loro stessi diritti.
Ma le leggi che dovrebbero tutelare questi diritti risultano inapplicabili

Capisce anche che un gruppo di 50, 100, 200 può più del singolo, capisce la forza della solidarietà. Spinge le donne a unirsi un gruppi, e dedica la sua vita a combattere le ingiustizie, ad aiutare altre donne creando gruppi di self-help: insegna loro a cucire, soprattutto a quelle rimaste senza marito perché questo da loro un modo per guadagnare e potersi mantenere. Comprare una macchina da cucire diventa il mezzo per il riscatto.
È in seguito a tutto questo che, nel 2006, crea la “Gulabi gang” (Gulabi significa rosa, inteso come fiore, 
simbolo di dolcezza, ma queste donne portano con sé anche un bastone simbolo di autorevolezza e di capacità di difendersi).
Ha avuto difficoltà a reclutare e formare le sue militanti, ma una volta arruolate niente riesce a fermarle. Queste donne, unite, hanno un solo scopo: lottare contro l’ingiustizia e la corruzione. Sceglie per il suo gruppo una divisa che contribuisce banalmente a vedersi e ritrovarsi nella folla, a creare un senso di appartenenza e unione, e che oltretutto è di grande impatto visivo quando in tante si presentano fuori da un comando di polizia per manifestare o presentare una denuncia.
Il gruppo, che conta diverse migliaia di donne e pochi uomini, si comporta come se fosse formato da vigilantes, intervenendo in maniera attiva e decisa se possono evitare qualche soppruso.
Parallelamente operano per far raggiungere una maggiore giustizia sociale per i poveri, ma con una maggiore attenzione alle condizioni delle donne povere.
Il loro obiettivo è quello di incutere paura ai malintenzionati e di guadagnarsi il rispetto dei funzionari che hanno il potere di facilitare e promuovere un cambiamento della situazione.
Nel 2010 la storia di Sampat viene raccontata anche in un film documentario intitolato “Pink Gang”.
 

Sampat è una passionaria, ha il piglio di un generale, è decisa, usa un linguaggio militaresco quando parla della sua Gang. Ha decisamente un’alta opinione di sé e non lo nasconde, d’altro canto in un paese dove ancora oggi esistono le caste, almeno di fatto, visto che sono state abolite dalla legge, se non avesse avuto una tale determinazione, convinzione e forza d’animo non avrebbe ottenuto simili risultati. 
 


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Jennifer BTS of my Soul

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lunedì 4 aprile 2016

Ritratto di Signora: Frida Kalo






Eccoci qui con il nstro appuntamento mensile con Ritratto di Signora e per questo mese anbbiamo una sorpresa: la scrittrice Francesca Diotallevi ha accettato di scrivere un ritratto per noi.


Dolcissima e fragile. Indomita e visionaria. Il mio Ritratto di Signora vuole omaggiare una donna le cui ali spezzate non hanno impedito un volo spericolato sugli abissi insidiosi che la vita le ha riservato: la pittrice Frida Kahlo.
Una ragazzina come tante, forse più fiera, o solo più cocciuta, a cui è stata riservata la più difficile delle prove: morire e rinascere. Conoscersi di nuovo, e conoscersi in una veste nuova. Fare della propria debolezza un punto di forza, della propria sofferenza un modo per guardare il mondo con occhi diversi, lasciando dietro di sé una scia di dipinti capaci di incantare, di commuovere, di entrarti sottopelle. Capaci di offuscare anche il gigantesco marito-genio Diego Rivera, il più grande artista messicano dell’epoca.
A diciotto anni Frida, ragazza di buona famiglia, che studia per diventare medico, incappa nel Destino: il suo ha la forma di un tram, e le arriva dritto addosso. Frida è sull’autobus che da Città del Messico la sta riportando a casa, a Coyoacàn. Con lei c’è il fidanzato Alejandro.

 


Il tram si avvicinò con una lentezza esasperante. Lo vedemmo comparire all’improvviso all’angolo tra Cuahutemotzín e 5 de Mayo, quando stavamo per voltare in Calzada de Tlalpan. Sembrava non avere freni. Fu quella terrificante lentezza a darci la consapevolezza che non ci sarebbe stato scampo. Veniva verso di noi come qualcosa di fatale, a cui sarebbe stato vano opporsi.
Lo scontro fu inevitabile; poi, senza fretta, il tram iniziò a trascinare l’autobus fino a schiacciarlo contro un muro.
Ricordo lo stridore di freni, lo scossone iniziale, e la sorprendente elasticità dell’autobus, che sembrò reggere l’urto fino alla fine. Le ginocchia dei passeggeri seduti gli uni di fronte agli altri, sulle panche di legno, arrivarono quasi a toccarsi. Tutto tremò e traballò, in un precario equilibrio. Qualcuno cadde, altri fecero appena in tempo a farsi il segno della croce. Cercai lo sguardo di Alex, e quello che vidi nel fondo dei suoi occhi scuri non mi piacque. Fu in quel momento che iniziai ad avere davvero paura. Fu l’ultimo punto di contatto con quella che, fino a quel momento, era stata la mia vita.
Poi tutto esplose. L’autobus si spezzò a metà, la lamiera si accartocciò come se fosse fatta di cartapesta, le assi del fondo si sollevarono e si frantumarono in centinaia di schegge di legno. Qualcuno cadde nella voragine che si aperta al centro dell’autobus, e venne schiacciato dal tram, che sembrava incapace di arrestare quel suo placido incedere. Passò su di noi come una falce sul grano, non rimase nulla dopo.
Venni scalzata dal sedile e scaraventata con violenza contro la mia sorte. Qualcosa si frappose, in quel volo disperato. Qualcosa che aveva la durezza e lo spietato gelo del metallo. Mi trapassò da parte a parte, a ricordarmi che la vita è un dono e che basta un soffio a spegnerla. Poi ricaddi a terra, tra i cocci di vetro, il sangue e i pezzi di un’esistenza andata distrutta nel momento stesso in cui quel tram era apparso all’orizzonte.
Quello che ricordo, di quei pochi istanti in cui conservo una, seppur confusa, memoria, è l’oro. Il cielo era d’oro, sopra di me; erano d’oro i miei abiti strappati, i capelli impastati di sangue e le gambe nude, piegate in una strana posizione. Non sentivo dolore, non sentivo niente. Volevo solo restare a guardare quella nuvola di polvere dorata che si era sollevata quando il cartoccio dell’uomo che, solo pochi istanti prima, era in piedi vicino a me, conteneva.
«La bailarina, la bailarina!» gridò qualcuno, vicino a me. In quel momento non capii a cosa si riferissero. Ma dovevo offrire uno spettacolo bizzarro, ricoperta d’oro e con il corrimano di metallo del tram che mi trapassava il corpo. Mi aveva trafitto nello stesso modo in cui una spada trafigge un toro. Feci un sospiro, sentendo all’improvviso una grande stanchezza. Pensai al parasole che mi aveva prestato mia sorella Cristina. Pensai al balero dai bei colori che avevo comprato proprio quel pomeriggio e che tenevo nella cartella. Sperai che non si fosse sciupato; provai a cercarlo ma scoprii, un po’ sorpresa, di non averne le forze.
«Sta morendo?» domandò qualcuno, accanto a me.
«L’ambulanza sta arrivando» rispose un’altra voce.
«Non farà mai in tempo.»
Chiusi gli occhi. Quella che ero stata fino a quel momento, la Frida che per diciotto anni aveva abitato il mio corpo agile e aggraziato, morì su quella strada, palcoscenico su cui si era consumata la prima tragedia della mia vita.



Dicono che per costruire qualcosa di nuovo vada distrutto ciò che c’era prima. Anche per Frida andò così. La ragazza spensierata che fino a quel momento aveva vissuto la vita con entusiasmo e leggerezza scomparve per lasciare il posto a una creatura nuova, più profonda e inevitabilmente segnata. La nuova Frida ha uno sguardo serio, capace di guardare oltre, di indagare al di là della superficie delle cose. La nuova Frida conosce il dolore, quello che ti morde la carne senza tregua, e impara a conviverci. Ci convivrà per tutta la vita, che non sarà lunga, ma sarà una vita coraggiosa, sempre tesa a sfidare i propri limiti, quelli del corpo e quelli dell’anima.

Il bollettino medico, che un dottore dall’aria contrita fece a me e alla mia famiglia, scandendo bene ogni parola, aveva dell’incredibile. L’incidente mi aveva spezzato la colonna vertebrale in tre punti; mi si erano rotti anche l’osso del collo, la terza e la quarta costola. La gamba sinistra aveva riportato undici fratture e il piede si era dislocato e schiacciato. La spalla sinistra era uscita dalla sua sede e le pelvi si erano frantumate in tre punti. Il corrimano di metallo del tram mi aveva perforato l’addome ed era uscito attraverso la vagina. Più tardi ci avrei scherzato, dicendo che avevo perduto così la verginità.
Il fatto che fossi ancora viva era un miracolo, ma non tutti sembravano pensarla così. Mia madre si era chiusa in un ostinato mutismo, non aveva neanche la forza di venirmi a trovare. A chi glielo chiedeva rispondeva che sarebbe stato meglio che me ne fossi andata senza soffrire, invece di restare in vita ed essere costretta a quel supplizio.
Ed era un vero supplizio. Il dolore andava e veniva a ondate, senza darmi tregua. Completamente immobilizzata, me ne stavo a fissare il soffitto bianco dell’ospedale per ore, le lacrime che mi rigavano le guance a causa della sofferenza e della frustrazione. I miei spericolati voli di uccello erano finiti, restava solo il gesso che mi paralizzava e la struttura dentro a cui ero rinchiusa, simile a un sarcofago.
Di notte la morte danzava attorno a me, facendosi beffe della mia sciocca ostinazione. Ma non gliela avrei data vinta. Mai.

Frida sopravvive, dunque. Passa lunghi mesi immobilizzata a letto, rinchiusa in busti di gesso che le impediscono di muoversi. La pittura arriva in punta di piedi, a salvarla, a occupare uno spazio vuoto, a impossessarsi di ogni aspetto della vita di questa ragazza spezzata, ma intenzionata a non lasciarsi sopraffare. Nemmeno dall’abbandono del fidanzato, incapace di conciliare l’immagine della ragazza allegra e gioiosa con questa nuova Frida invecchiata, di colpo, di cent’anni.

Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre nella calda luce del tardo pomeriggio. Avevo le labbra secche, incollate tra di loro. Da mesi vivevo in uno stato di completo intorpidimento, non ricordavo più che giorno era, entravo e uscivo dal dormiveglia. Le mie notti erano popolate di incubi, le giornate diluite nella noia. Il dolore era una morsa continua, come un cane che azzannava senza tregua la mia carne. L’immobilità mi stava consumando. Mi sentivo una pianta che avvizziva in un angolo buio. Senza luce e pioggia che ridessero linfa al mio spirito inaridito mi sarei spenta fino a morirne.
Voltai il viso verso il comodino, in cerca di del bicchiere d’acqua con cui dare sollievo alla mia gola riarsa e mi accorsi che mio padre era al mio fianco. Seduto sulla sedia su cui si alternavano i membri della mia famiglia, e le poche persone che ancora venivano a farmi visita, mi osservava con i profondi occhi scuri sotto le folte sopracciglia nere.
«Papà» buttai fuori, con una smorfia di dolore, mentre cercavo, inutilmente, di sgranchire il mio corpo nel busto di gesso. Mi sentivo come un mollusco chiuso in un carapace troppo stretto e talvolta mi chiedevo se esistesse ancora la mia pelle, là sotto. Se ci fossero le ossa, se il mio cuore battesse ancora. Spesso, nel corso dei mesi, mi ero sentita tutt’uno con quel calco che mi avevano sagomato addosso, appendendomi per la testa per fare in modo che, mentre si asciugava, la mia spina dorsale fosse perfettamente dritta. Una statua vivente, ecco cos’ero. Un bizzarro esperimento che faceva di me una creatura a metà. Viva, eppure tenuta lontana da quella vita che avevo amato con ogni fibra del mio essere, bloccata in quel letto che era prigione e tomba di ogni mio sospiro. Un colibrì a cui avevano spezzato le ali, che abitava un pianeta di dolore, trasparente come ghiaccio. Avevo imparato ogni cosa di colpo; se le persone che mi circondavano erano cresciute un poco alla volta, io ero invecchiata in pochi istanti, e mi sentivo già stanca di tutto.
«Mia piccola Frida» mormorò mio padre, abbozzando un sorriso. «Come ti senti, oggi?»

Pensai a cosa avrei voluto rispondere, poi scossi la testa. Non volevo condividere con lui la mia sofferenza, né con nessuno della mia famiglia. Li avevo messi fin troppo alla prova; ogni loro patimento era un senso di colpa che andava ad accumularsi agli altri, quelli che, nonostante tutto, provavo per essere diventata perenne fonte di preoccupazione.
«Un po’ meglio di ieri e un po’ peggio di domani» dissi, per non angosciarlo più di quanto già non fosse.
«Be’, io credo che oggi ti sentirai un po’ più felice» disse lui, chinandosi per prendere qualcosa che aveva appoggiato per terra, al suo fianco. Quando si sollevò vidi che tra le mani stringeva una scatola. La conoscevo bene, era la scatola dei suoi colori a olio. Da bambina mi piaceva sedermi accanto a lui e vederlo sfoggiare le sue modeste capacità pittoriche. Si cimentava per lo più nei paesaggi che offriva Coyoacán. Io, che ero affascinata da qualunque cosa facesse mio padre, studiavo ogni sua mossa nei minimi dettagli, cercando di non perdermi nemmeno un passaggio di quel processo affascinante che rendeva una tela bianca un luogo popolato di immagini e colori. I colori, soprattutto, mi interessavano. Mi piaceva vedere il modo in cui potevano essere sfumati, il modo con cui davano vita alle forme.
«I tuoi colori a olio?» domandai, perplessa. Sapevo che li teneva con grande cura e ne era molto geloso.
Lui annuì: «Ora sono tuoi. Io e tua madre abbiamo pensato…» si bloccò, indeciso su come proseguire. «Da bambina ti piaceva molto disegnare. Potrebbe essere un modo di passare il tempo.»
Levai le sopracciglia, stupita da quella nuova prospettiva che mio padre mi stava offrendo. Di tempo ne avevo fin troppo a disposizione. Avrei accolto con gioia qualunque diversivo si fosse frapposto fra me e quella noia spietata che mi avvelenava le giornate, portandomi a fissare il baldacchino del mio letto spesso per ore.

Mia madre, in un impeto di intraprendenza, mi aveva fatto preparare da un falegname un cavalletto grazie al quale avrei potuto dipingere stando sdraiata. Era un diversivo interessante e mi ci accostai con un entusiasmo che non avvertivo da tempo, salvo bloccarmi, dopo pochi minuti, davanti all’ineluttabilità della tela bianca.
Mi guardai intorno, smarrita. Ero sola. In grembo avevo i colori a olio di mio padre, un lapis con cui tracciare il bozzetto e un paio di pennelli un po’ spelacchiati, ma più che validi per quello che mi proponevo di fare. Sollevai la matita e la soppesai nel palmo per alcuni secondi, premendo la mina contro i polpastrelli. La avvicinai alla tela, poi la scostai. La mia mano rimase sospesa a mezz’aria. Cosa avrei dovuto dipingere, esattamente? Da bambina disegnavo ciò che mi suggeriva l’immaginazione. Spesso, nei momenti di solitudine, avevo tracciato con la punta l’indice la sagoma di una porta sulla condensa di un vetro appannato. Da quella porta ero scappata tante volte per raggiungere la mia amica immaginaria, una bambina della mia età con cui condividevo i miei sogni. Mi chiesi se quella bambina esistesse ancora, da qualche parte dentro di me. Se fosse cresciuta e che aspetto avesse, dopo tutti quegli anni. Riportai la mano alla tela e traccia un ovale un po’ incerto, poi provai ad abbozzare un naso e degli occhi. Mi bloccai di nuovo. Non riuscivo a proseguire senza un modello a cui affidarmi, ma non avrei saputo a chi domandare di posare. Ebbi la risposta ruotando il viso verso la cassettiera appoggiata al muro e sovrastata da una specchiera. Chi, meglio di me, poteva restare fermo nella stessa posizione, senza muovere un muscolo, per ore, giorni, mesi?
Nei giorni successivi i miei genitori fecero montare uno specchio sul lato inferiore del baldacchino che sovrastava il mio letto. Eccomi lì, il volto incavato e gli angoli della bocca piegati all’ingiù dall’inerzia. Solo gli occhi trasmettevano una ferma volontà e mi ricordavano che, nonostante tutto, ero più viva che mai. Non era il corpo a decidere, ma lo spirito, e il mio era ancora forte e combattivo.
Era un modo di ricominciare e ricominciavo da me, studiandomi in uno specchio, andando oltre quel corpo che era prigione e ancora di un’anima che sognava solo il cielo e la sua sconfinatezza.
Nel momento stesso in cui stesi la prima pennellata di colore, per sovrastare il bianco che mi opprimeva, perché mi ricordava quello dell’ospedale, avvertii un frullare di ali. E capii che la Pelona non mi aveva piegato, non ancora.
Dipinsi seguendo il mio istinto; non avevo compiuto studi in materia, se non qualche sporadica lezione acquisita dall’incisore Fernando Fernández, un caro amico di mio padre presso cui avevo lavorato per un breve periodo, per mettere da parte qualche soldo.
Lentamente, dalla tela che avevo davanti, emerse un volto, il mio. Emersero gli occhi pieni di vita, le labbra atteggiate in un lieve sorriso, i capelli raccolti e il collo lungo. C’era qualcosa di aristocratico nel modo in cui mi ero raffigurata, che dovevo all’arte italiana che Fernández mi aveva mostrato nel suo studio. Una Madonna rinascimentale?
No, non ero una santa. Mi dipinsi con un abito di velluto rosso dalla scollatura vertiginosa. Il quadro sarebbe stato un regalo per Alex, un dipinto che gli avrebbe ricordato cosa si era lasciato alle spalle abbandonandomi in quel letto messicano mentre lui viaggiava per l’Europa.
Il mio primo approccio all’arte venne alimentato dal senso di rivalsa. Una rappresaglia alla cattiva sorte che mi perseguitava e che mi aveva tolto tanto.
Guardai il dipinto. Non era eccelso, era anzi un primo tentativo molto modesto, ma esprimeva qualcosa: un bisogno di risarcimento che si esprimeva attraverso linee e colori fino a dare voce alla mia sete di vita.
In quel momento, con le dita ancora sporche di colore e l’odore di olio e trementina che aleggiava nell’aria, mi resi conto di essere rinata. Attorno, improvvisamente, avevo un mondo intero; come quando, da bambina, mi bastava disegnare una porticina nella condensa di un vetro per viaggiare oltre me stessa.
L’arte era la strada. L’arte era la vita.
Frida, scrissi sotto al ritratto.
Sì, Frida, la nata due volte.


Frida torna a camminare, e torna ad amare, innamorandosi del gigante (fisicamente e artisticamente parlando) Diego Rivera. Lo sposa, contro il parere contrario dei genitori, che definiscono la loro unione l’incontro tra una colomba e un elefante. Sopporterà, oltre ai propri problemi di salute, anche i dolori inferti al suo cuore dalla maternità negata a causa dell’incidente, e dalla leggerezza del marito, che non perde occasione per tradirla, pur amandola più di qualunque altra cosa. L’ultimo tradimento viene consumato con la sorella minore di Frida, Cristina. È la goccia che fa traboccare il vaso, Frida non regge il colpo. La coppia divorzia.

Io sono dolore. Poso le mani sui reni, cercando di raddrizzare la schiena; è come raddrizzare un albero abbattuto dalla tempesta. Fa male, ma alla sofferenza sono abituata da tanto, troppo tempo. Se guardo indietro non riesco a ricordare cosa significhi vivere senza l’impressione che il corpo, che minaccia di disfarsi a ogni respiro, si tenga invece insieme per miracolo. È questo che la gente sussurrava di me, dopo il primo dei due brutti incidenti che mi sono capitati nella vita: è una miracolata. Io, però, non ci ho mai creduto. La mia salvezza, se di salvezza si è trattato, l’ho vissuta come una condanna. Se è vero che per ogni cosa c’è un prezzo da pagare, il mio debito per essere sopravvissuta credo di averlo saldato da un pezzo. Questo la pelona dovrebbe saperlo.
Appoggio il pennello sulla tavolozza, il quadro che ho davanti è uno dei più grossi che abbia mai dipinto. Lo volevo così, ingombrante, impossibile da ignorare. Due Frida mi osservano dalla tela. Due me stessa con un solo cuore, diviso a metà. Una è seria, imperturbabile. Nella mano sinistra stringe una foto di Diego bambino, da cui parte una vena che da lui prende nutrimento. La destra è aggrappata alla mano dell’altra Frida, la Frida spaventata, quella che sta morendo dissanguata. La pinza da chirurgo con cui tenta di fermare l’emorragia non basterà a salvarla. Il sangue le macchia la gonna, sbocciando come fiori cremisi sul pesante cotone bianco.
Lo osservo con aria critica, accendendo una sigaretta. Il fumo si solleva davanti a me, componendo e scomponendo immagini. Diranno che è macabro, spaventoso, funesto. Sì, lo è. È come l’amore, la vita, la morte. È speranza delusa, affetto tradito e desiderio frustrato. È ciò che sono io in questo momento: una donna divisa. Divorziata.
Penso a cosa significa questa parola, per me. È il fallimento di un sogno in cui ho creduto con cieca determinazione. È un naufragio che mi lascia senza forze. Tante volte mi sono rialzata nella vita, e non parlo per metafore. Ci ha provato, la sorte, a spezzarmi le gambe e la schiena. Mi ha lasciato inerme, alla deriva di un mare in tempesta. Ma non è bastato.
Spengo la sigaretta e ne accendo un’altra. Dicono che fumi troppo, e che beva troppo. E che sia troppo magra, troppo debole e cagionevole per sopportare tutto questo. Ma non mi interessa. Guardo il quadro che ho davanti, l’ennesimo autoritratto che mi aiuta a fare chiarezza, a scorgere me stessa oltre la fragilità della mia pelle. Qui sono colore vibrante ed emozione. Qui sono Frida, molto più di quanto non lo sia nella vita vera. Vivo attraverso una tela, oltrepasso i confini dei mondi, fisso i sentimenti con una sfumatura, in modo che non mi sfuggano mai più, che restino a ricordarmi chi sono e cosa provo.
Non sono stata sempre così. C’è stato un tempo in cui tutto questo non aveva importanza, volevo solo vivere, diventare medico, essere felice. Volavo con la spensieratezza di un uccello dalle ali robuste. Un uccello che non teme venti e tempeste.
Poi c’è stato l’incidente, il primo, quello che ha deciso il mio destino. Mi ha tolto tanto, ma in cambio mi ha donato uno sguardo nuovo, capace di guardare oltre; mi ha donato l’arte e la consapevolezza che ogni istante può essere l’ultimo.
Il secondo incidente, di gran lunga il peggiore, è stato mio marito Diego.

Nonostante tutto, Frida e Diego sembrano destinati a stare insieme, creati per appartenere l’uno all’altra. Si risposano, ed è Diego ad assistere l’amata moglie nei suoi ultimi anni, che sono fatti di atroci sofferenze fisiche. Frida ormai non si alza più dal letto. La colonna vertebrale è a pezzi, le hanno amputato una gamba a causa della cancrena, e tutto il fisico inizia a cedere.
Prima di andarsene Frida annota nel suo diario: Spero che la fine sia gioiosa, e spero di non tornare mai più.
Di lei rimangono i suoi quadri, compagni di viaggio, testimoni intimi, talvolta dolenti, altre surreali, di una vita vissuta fino all’ultimo respiro con coraggio e tenacia.
Una funambola sospesa ad altezze vertiginose; un corpo traditore, creato per contenere sofferenza, e una mente libera, in grado di librarsi sopra le brutture della quotidianità. Questo è stata Frida Kahlo, un’anima bella.


Ho adorato ogni singola parola del ritratto che Francesca ha scritto per noi, le parti in corsivo non sono, come si potrebbe pensare delle citazioni, ma il suo modo di raccontarci la vita di Frida in maniera molto profonda.

Come sempre potete trovare il ritratto anche sui blog di 
Jennifer BTS of my Soul

Grazie Fede, Monica, Miki, Francesca, Daniela, Jennifer

venerdì 1 aprile 2016

"Cookfins" al Irish Cream

Avevo voglia di cucinare biscotti, ma non volevo i classici biscotti di frolla, così ho cercato tra i miei appunti se mi ero segnata qualcosa, alla fine mi sono spuntati dei cookiee all'irish cream.
Buoni! Già avevo l'acquolina in bocca solo all'idea.
Bene, in casa ho tutto e si può cominciare.
Sforno qualcosa come 40 biscotti e noto che sono molto soffici, ma come sappiamo bene i cookies devono raffreddare pirma di raggiungere la giusta consistenza.
Ma niente la consistenza rimane comunque sofficie, al che commentando con i miei dico "forse devo ritoccare un po' la ricetta, così sono una via di mezzo tra i cookies e i muffins", in quel momento salta su mio nipote, 4 biscotti in bocca e uno per mano (ho come avuto l'impressione che aprezzasse) "Son cookfins".
Insomma ho provato a rifrli aggiustando la ricetta, giusta consistenza per un cookie, ma molto meglio la versione "sbagliata".


Ingredienti :
225 gr burro
300 gr zucchero
300 gr farina
40 gr cacao amaro
2 uova
8 cucchiai di Irish Crea
1 e 1/2 cucchiaino di lievito
1 cucchiaino di estratto di vaniglia

Preparazione:
Lavorate a crema il burro con zuccchero, uova, vaniglia e Irish Cream.
Aggiungere la farina setacciata con il cacao e il lievito (se volete la consistenza dei cookies mettetene solo 1/2 cucchiaino).
Quando tutto è ben impastato lasciare riposare in frigo coperto per una paio d'ore.
Formare delle palline grandi cme noci con l'impasto e posizionarle su una teglia sopra la carta forno.
Cuocere a 180° per 10 minuti.
Volendo si pssono accoppire a due a due con nel mezzo uno strato di crema a base di mascarpone o formaggio spalmabile, per creare dell Woopie-Pie (tipo queste)



martedì 29 marzo 2016

Pollo yogurt e paprika

Ultimamente il tempo per cucinare è sempre poco, anzi ilò tempo che ho per fare qualunque cosa, dovrei cercare di organizzarmi meglio, ma spesso mi accorgo di arrivare a fine giornata avendo fatto la metà di quello che avrei voluto.
Il fatto però che non abbia tutto il tempo che vorrei per dedicarmi alla cucina mi spinge a cercare ricette più veloci.
Un bel secondo semplice semplice, ma con un bel sapore deciso, perfetto con un po' di verdure grigliate, o una bella insalata, ma anche perchè no con del riso basmati bianco.

Ingredienti:
500 gr petto di pollo
300 gr yogurt magro (va bene anche lo yogurt greco)
2 cucchiai di paprika
olio extravergine d'oliva
sale

Preparazione:
Tagliate il petto di pollo a cubetti.
Mescolate lo yogurt con la paprika, un cucchiaio di olio  e un po' di sale.
Mettete il pollo nello yogurt e fatelo marinare coperto in frigorifero per 3 o 4 ore.
Scaldate molto bene una padella e versateci il pollo con la marinata.
Fate cuocere fino a quando la marinata non si sarà asciugata e il pollo un po' rosolato all'esterno.
Potrebbe essere che il pollo risulti un po' asciutto, un idea sarebbe quella di preparare un po' di yogurt e paprika a parte da accompagnare come salsa.


 

sabato 26 marzo 2016

Cheescake ai 3 cioccolati

Questa è una ricetta che ho fatto un po' di tempo fa, ma devo dire che mi era piaciuta molto, beh insomma, io amo il cioccolato quindi pare ovvio.
In più devo dire che è piuttosto scenografica con i suoi strati di colore ben dfinito, ma molto semplice da realizzare e anche senza cottura.
Dato che si tratta di preparazioni fondamentalmente uguali ma da fare in sequenza ho preferito dividere la lista ingredienti secondo appunto le varie fasi della ricetta.

Ingredienti:
200 gr di biscoti al cacao
100 gr di burro

50 gr cioccolato fondente
250 gr di formaggio spalmabile
3 gr di gelatina
80 ml di panna
20 gr di zucchero a velo

50 gr cioccolatoal latte
250 gr di formaggio spalmabile
3 gr di gelatina
80 ml di panna
20 gr di zucchero a velo

50 gr cioccolato bianco
250 gr di formaggio spalmabile
3 gr di gelatina
80 ml di panna
20 gr di zucchero a velo

Preparazione:
Sbriciolare molto finemente i biscotti, unirli al burro fuso e una volta amalgamato il tutto disporli sulla base della tortiera precedentemente ricoperta di carta da forno, livellare bene e pressare.
Lasciare riposare in frigo.
Far sciogliere il cioccolato fondente tritato grossolanamente a bagnomaria, versaroo nel formaggio e mescolare.
Scaldare la panna e scioglierci la gelatina.
Unire la panna alla crema al cioccolato e versare sulla base di biscotto.
Posizionare la teglia freddare in frigo per 15 minuti circa.
Nel frattempo preparare, con lo stesso procedimento, il secondo strato di crema utilizzando il cioccolato al latte, ed infine con il cioccolato bianco.
Lasciare freddare in frigo per qualche ora prima di servirla.


martedì 8 marzo 2016

Ritratto di Signora: Speciale 8 Marzo


In occasione della Giornata Mondiale della Donna, noi di Ritratto di Signora abbiamo sempre voluto sottolinearne l'importanza ed il valore storico ed umano.
Lo abbiamo fatto con le parole di una canzone, con la forza delle immagini, attraverso le eroine dei nostri libri preferiti,
Anche quest'anno, nonostante sia solo di ieri l'appuntamento mensile, vogliamo fermarci un attimo e dare spazio a quelle emozioni travolgenti che le storie di donne forti, caparbie, determinate suscitano. E lo facciamo attraverso un film.

BUONA VISIONE


Nel 1968, nella fabbrica della Ford di Dagenham lavorano 187 donne, addette al confezionamento delle coperture dei sedili.
Ogni giorno, in un capannone fatiscente, troppo caldo in estate, troppo freddo in inverno, e dove piove dentro, si siedono alle loro machine da cucire e mettono insieme i vari pezzi, quasi fosse un puzzle, fino a ricreare l'intera copertura dei sedili.
La definizine professionale è quella di operaie non specializzate, i loro stipendi sono di molto inferiori rispetto a quello dei colleghi uomini, che le sottovalutano e sminuiscono il loro lavoro, perché in fondo non è mica importante quello che fanno, sono solo le coperture dei sedili.
Le operaie si rganizzano allora. E cominciano uno sciopero che con il protrarsi del tempo costringerà la fabbrica a fermarsi.
Porteranno la loro protesta fino a Londra, fino al parlamento, trovando anche appoggi nella deputata Barbara Castle, e ponendo aon la loro protesta le basi della Legge sulla Parità di Retribuzione.





"Sei un Santo allora? perchè ci tratti alla pari? è come dovrebbe essere, Cristo, Eddy! Per cosa credi che facciamo sciopero, eh? Comunque è vero tu non bevi molto, non scommetti, stai con i figli, non ci picchi… oh come sono fortunata! Per l’amor del cielo Eddy, è come dovrebbe essere! Cerca di rendertene conto: SONO DIRITTI NON PRIVILEGI!!"

Potete vedere gli alri film scelti andando sui  blog di Miki, Daniela, Francesca, Monica

E per concludere Auguri da tutte noi, e non solo oggi, ma ogni giorno dell'anno
Grazie Fede, Monica, Miki, Francesca, Daniela, Jennifer