Eccoci qui con un giorno di ritardo dopo una Pasqua grigia e piovosa ed una Pasquetta molto più luminosa, ma ancora deciamente fredda.
L'idea per questo ritratto
mi è venuta addosso d'un colpo.
Leggevo un'articolo sui
testimoni di giustizia e mi sono ricordata di un servizio al TG di
tempo fa dove si parlava di una ragazza, che per amore si trasferì
in Sicilia, per poi scoprire che in realtà il fidanzato faceva parte
di una famiglia mafiosa.
Inutile dirlo, ma a storia
non finì bene.
Non ricordo i particolari,
non ricordo nemmeno il nome della ragazza, mi spiace, ricordo
particolari meno importanti, ma il suo nome proprio non mi torna in
mente, spesso sono distratta da futilità e perdo poi quello che è
il cuore delle storie.
Ma alla fine devo aver
interiorizzato quella storia più di quando noncredessi, se quando
mi sonono chiesta di chi parlare per il mio post, il pensiero è
andato lì.
Ma non era l'unica, la
nostra storia più recente purtroppo è piena di episodi simili.
Lea Garofalo, dopo
aver tetimoniato contro l'ex compagno e la sua famiglia, viene
inserita nel programma di protezione testimoni nel 2002, ma in
seguito ne viene estromessa perchè il suo il suo apporto fu
giudicato "non significativo". Nel dicembre del 2007 - dopo
una pronuncia del Consiglio di Stato- venne riammessa al programma,
ma nell'aprile del 2009, pochi mesi prima della sua scomparsa, decise
all'improvviso di rinunciare volontariamente a ogni tutela e di
tornare a Petilia Policastro, per poi trasferirsi a Campobasso in una
casa che le trova proprio l'ex compagno Carlo Cosco. In seguito con
un sotterfugio l'ex marito cerca di farla rapire da un suo complice.
La donna riesce a sfuggire all'agguato grazie al tempestivo
intervento della figlia Denise e informa i carabinieri dell'accaduto
ipotizzando il coinvolgimento dell'ex compagno. Lea Garofalo
conosceva, infatti, molti segreti della faida fra le famiglie
Garofalo e Mirabelli di Petilia Policastro.
Alla fine nel novembre
dello tesso anno Lea venne rapita torturata e infine uccisa e il suo
corpo nascoto in un terreno nella frazione di San Fruttuoso (Monza).
Lo scorso Dicembre la
cassazione ha confermato 4 ergastoli e una pena di 25 anni ai cinque
uomini colpevoli della sua morte.
Maria Concetta Cacciola
proviene da una famiglia imparentata con la cosca dei Bellocco, a
sedici anni si sposa e ancora giovanissima ha tre figli.
Quando però il peso di
quella vita, nella quale non si riconosce diventa troppo da
sopportare, comincia a fare rivelazioni che la portano presto ad
allontanarsi dalla sua famiglia per entrare in un programma di
protezione.
E da quel mometo è come
se rinacesse, allontandosi dalla mentalità ristretta dove era sempre
vissuta comincia a fare cose che per noi sono normali, esce, conosce
persone e abitudini differenti, si innamora persino, ma la famiglia
fa pressioni perchè torni indietro cercando di minare la sua fiducia
nella magistratura e facendo leva sulla nostalgia di casa.
Alla fine Maria Concetta
capisce di essere in trappola e nell’agosto 2011, dopo essere stata
dal parrucchiere, scende in cantina e si uccide bevendo acido
muriatico. Ma in pochi, tranne la madre, il padre e il fratello che
fanno ricadere la colpa sulla magistratura pressante, credono senza
riserve a una sequenza in cui una donna prima si fa bella per poi
porre fine alla propria vita.
Dopo lunghe indagini il
quadro che emerge è ben diverso dal suicidio.
Per impedire la
collaborazione con la giustizia di Maria Concetta Cacciola si era
mossa una squadra criminale. Uomini al servizio dei clan della
'ndrangheta che avevano l'obiettivo di impedire che la donna
continuasse a parlare ai magistrati svelando i segreti dei boss.
La paura principale dei
capimafia era soprattutto la possibilità che altre donne, segregate
e costrette a vivere in famiglie mafiose, avrebbero potuto seguire la
strada tracciata da Maria Concetta Cacciola.
Così i carabinieri hanno
arrestato cinque persone, il padre, la madre e il fratello della
vittima, e poi due avvocati penalisti molto noti nella piana di Gioia
Tauro.
Per i familiari l'accusa è
di concorso in violenza privata, concorso in violenza o minaccia per
costringere a commettere un reato, concorso in favoreggiamento
personale, tutti aggravati dall’aver favorito la 'ndrangheta. Per
gli avvocati le accuse sono pesanti: avrebbero indotto la donna a
ritrattare le dichiarazioni che aveva fatto ai magistrati.
Giuseppina Pesce
nel 2011 aveva deciso di ribellarsi alle regole mafiose della
famiglia e comincia a collaborare con la magistratura.
Una donna di ‘ndrangheta
che si pente è una macchia che soltanto un familiare può “lavare”,
con il sangue naturalmente. La protezione dello Stato le ha salvato
la vita per due volte e le ha aperto le porte di una normale
quotidianità.
Nell'Aprile del 2011
interrompe però la collaborazione e sembra rientrare nelle grazie
della famiglia. Ma solo apparentemente, in realtà questo cambio di
rotta fu causato da pressioni, ricatti, offerte di danaro e
soprattutto dalle violenze sui tre figli minori.
Poi il colpo di scena e la
verità sul dietrofront: una prigionia per i piccoli. Niente colloqui
con la mamma nella località segreta, niente vestiario, cibo col
contagocce. Pressioni psicologiche per inculcare nella testa dei
piccoli che quella condizione di sofferenza era causata da una mamma
indegna e cattiva. Per la privazione di cibo la piccola di 5 anni
aveva persino subito un progressivo deperimento fisico e un calo del
ferro nel sangue tale da provocarle forti crampi alle gambe e
insonnia. Squallidi i metodi utilizzati anche nei confronti del
maschietto di 9 anni. Oltre a subire percosse dal nonno, Gaetano
Palaia, anche con l’uso di una cintura, un giorno il bambino era
stato accompagnato dallo zio Gianluca Palaia, all’interno di una
sala giochi di Rosarno, e davanti a costui, senza che lui
intervenisse, era stato sottoposto a percosse da 3-4 ragazzi più
grandi. La ragazza più grande, infine, era stata costretta a
scrivere sotto dettatura una missiva alla madre, mentre si trovava in
una località protetta della provincia di Roma, per stigmatizzare il
suo comportamento e la ripresa della collaborazione con la
giustizia.
Giuseppina ritorna a pentirsi nell’agosto dello stesso anno. E scatena un terremoto giudiziario.
Lo scorso Ottobre si sono conclusi i processi con la conferma delle condanne: il marito Rocco Palaia, il suocero Gaetano Palaia, la cognata Angela Palaia e il marito di quest’ultima Angelo Ietto, i cognati Gianluca e Giovanni Palaia, la madre Angela Ferraro e la sorella Marina Pesce. Tutti finiti in carcere il 4 ottobre del 2011 per associazione mafiosa, anche grazie alle rivelazioni di Giuseppina. Adesso il suo calvario verso una nuova vita ha segnato un primo punto fermo.
Giuseppina ritorna a pentirsi nell’agosto dello stesso anno. E scatena un terremoto giudiziario.
Lo scorso Ottobre si sono conclusi i processi con la conferma delle condanne: il marito Rocco Palaia, il suocero Gaetano Palaia, la cognata Angela Palaia e il marito di quest’ultima Angelo Ietto, i cognati Gianluca e Giovanni Palaia, la madre Angela Ferraro e la sorella Marina Pesce. Tutti finiti in carcere il 4 ottobre del 2011 per associazione mafiosa, anche grazie alle rivelazioni di Giuseppina. Adesso il suo calvario verso una nuova vita ha segnato un primo punto fermo.
Leggere loro storie mi fa
pensare ad un'Italia lontana, ad modo di vivere vecchio che
sembrerebbe superato, ma qui si parla di avvenimenti recenti e che
continuano a ripetersi.
Moltissime altre sono le
storie di donne coraggiose che hanno dovuto affrontare prove
difficili come queste.
Moltissime quelle che sono
morte per poter cambiare le loro vite e quelle dei loro figli.
Fa riflettere la quantità
di coraggio necessaria per fare scelte del genere quando a volte
sembra impossibile fare anche solo un piccolo cambiamento nella
nostra vita.
Come sempère potete leggere i nostri ritratti anche nei blog di:
Daniela Un libro per amicoGrazie Fede, Monica, Miki, Francesca, Daniela
Penso che questo sia l'argomento più difficile trattato dalla rubrica finora. Una scelta davvero significativa. Ogni tanto bisogna far luce su queste zone d'ombra.
RispondiEliminaSono esperienze così recenti da essere ancora attualità, e non storia.
EliminaE in Italia ne abbiamo così tante che ogni giorno vengono fuori. La cosa peggiore è che spesso sono le persone che vivono in queste situazioni a giustificarne l'esistenza