martedì 7 aprile 2015

Ritratto di Signora: Testimoni di Giustizia

Bentornati con il nostro appuntamento.
Eccoci qui con un giorno di ritardo dopo una Pasqua grigia e piovosa ed una Pasquetta molto più luminosa, ma ancora deciamente fredda.

L'idea per questo ritratto mi è venuta addosso d'un colpo.
Leggevo un'articolo sui testimoni di giustizia e mi sono ricordata di un servizio al TG di tempo fa dove si parlava di una ragazza, che per amore si trasferì in Sicilia, per poi scoprire che in realtà il fidanzato faceva parte di una famiglia mafiosa.
Inutile dirlo, ma a storia non finì bene.
Non ricordo i particolari, non ricordo nemmeno il nome della ragazza, mi spiace, ricordo particolari meno importanti, ma il suo nome proprio non mi torna in mente, spesso sono distratta da futilità e perdo poi quello che è il cuore delle storie.
Ma alla fine devo aver interiorizzato quella storia più di quando noncredessi, se quando mi sonono chiesta di chi parlare per il mio post, il pensiero è andato lì.
Ma non era l'unica, la nostra storia più recente purtroppo è piena di episodi simili.
Lea Garofalo, dopo aver tetimoniato contro l'ex compagno e la sua famiglia, viene inserita nel programma di protezione testimoni nel 2002, ma in seguito ne viene estromessa perchè il suo il suo apporto fu giudicato "non significativo". Nel dicembre del 2007 - dopo una pronuncia del Consiglio di Stato- venne riammessa al programma, ma nell'aprile del 2009, pochi mesi prima della sua scomparsa, decise all'improvviso di rinunciare volontariamente a ogni tutela e di tornare a Petilia Policastro, per poi trasferirsi a Campobasso in una casa che le trova proprio l'ex compagno Carlo Cosco. In seguito con un sotterfugio l'ex marito cerca di farla rapire da un suo complice. La donna riesce a sfuggire all'agguato grazie al tempestivo intervento della figlia Denise e informa i carabinieri dell'accaduto ipotizzando il coinvolgimento dell'ex compagno. Lea Garofalo conosceva, infatti, molti segreti della faida fra le famiglie Garofalo e Mirabelli di Petilia Policastro.
Alla fine nel novembre dello tesso anno Lea venne rapita torturata e infine uccisa e il suo corpo nascoto in un terreno nella frazione di San Fruttuoso (Monza).
Lo scorso Dicembre la cassazione ha confermato 4 ergastoli e una pena di 25 anni ai cinque uomini colpevoli della sua morte.
 
Maria Concetta Cacciola proviene da una famiglia imparentata con la cosca dei Bellocco, a sedici anni si sposa e ancora giovanissima ha tre figli.
Quando però il peso di quella vita, nella quale non si riconosce diventa troppo da sopportare, comincia a fare rivelazioni che la portano presto ad allontanarsi dalla sua famiglia per entrare in un programma di protezione.
E da quel mometo è come se rinacesse, allontandosi dalla mentalità ristretta dove era sempre vissuta comincia a fare cose che per noi sono normali, esce, conosce persone e abitudini differenti, si innamora persino, ma la famiglia fa pressioni perchè torni indietro cercando di minare la sua fiducia nella magistratura e facendo leva sulla nostalgia di casa.
Alla fine Maria Concetta capisce di essere in trappola e nell’agosto 2011, dopo essere stata dal parrucchiere, scende in cantina e si uccide bevendo acido muriatico. Ma in pochi, tranne la madre, il padre e il fratello che fanno ricadere la colpa sulla magistratura pressante, credono senza riserve a una sequenza in cui una donna prima si fa bella per poi porre fine alla propria vita.
Dopo lunghe indagini il quadro che emerge è ben diverso dal suicidio.
Per impedire la collaborazione con la giustizia di Maria Concetta Cacciola si era mossa una squadra criminale. Uomini al servizio dei clan della 'ndrangheta che avevano l'obiettivo di impedire che la donna continuasse a parlare ai magistrati svelando i segreti dei boss.
La paura principale dei capimafia era soprattutto la possibilità che altre donne, segregate e costrette a vivere in famiglie mafiose, avrebbero potuto seguire la strada tracciata da Maria Concetta Cacciola.
Così i carabinieri hanno arrestato cinque persone, il padre, la madre e il fratello della vittima, e poi due avvocati penalisti molto noti nella piana di Gioia Tauro.
Per i familiari l'accusa è di concorso in violenza privata, concorso in violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, concorso in favoreggiamento personale, tutti aggravati dall’aver favorito la 'ndrangheta. Per gli avvocati le accuse sono pesanti: avrebbero indotto la donna a ritrattare le dichiarazioni che aveva fatto ai magistrati. 
 
Giuseppina Pesce nel 2011 aveva deciso di ribellarsi alle regole mafiose della famiglia e comincia a collaborare con la magistratura.
Una donna di ‘ndrangheta che si pente è una macchia che soltanto un familiare può “lavare”, con il sangue naturalmente. La protezione dello Stato le ha salvato la vita per due volte e le ha aperto le porte di una normale quotidianità.
Nell'Aprile del 2011 interrompe però la collaborazione e sembra rientrare nelle grazie della famiglia. Ma solo apparentemente, in realtà questo cambio di rotta fu causato da pressioni, ricatti, offerte di danaro e soprattutto dalle violenze sui tre figli minori.
Poi il colpo di scena e la verità sul dietrofront: una prigionia per i piccoli. Niente colloqui con la mamma nella località segreta, niente vestiario, cibo col contagocce. Pressioni psicologiche per inculcare nella testa dei piccoli che quella condizione di sofferenza era causata da una mamma indegna e cattiva. Per la privazione di cibo la piccola di 5 anni aveva persino subito un progressivo deperimento fisico e un calo del ferro nel sangue tale da provocarle forti crampi alle gambe e insonnia. Squallidi i metodi utilizzati anche nei confronti del maschietto di 9 anni. Oltre a subire percosse dal nonno, Gaetano Palaia, anche con l’uso di una cintura, un giorno il bambino era stato accompagnato dallo zio Gianluca Palaia, all’interno di una sala giochi di Rosarno, e davanti a costui, senza che lui intervenisse, era stato sottoposto a percosse da 3-4 ragazzi più grandi. La ragazza più grande, infine, era stata costretta a scrivere sotto dettatura una missiva alla madre, mentre si trovava in una località protetta della provincia di Roma, per stigmatizzare il suo comportamento e la ripresa della collaborazione con la giustizia.
Giuseppina ritorna a pentirsi nell’agosto dello stesso anno. E scatena un terremoto giudiziario.
Lo scorso Ottobre si sono conclusi i processi con la conferma delle condanne: il marito Rocco Palaia, il suocero Gaetano Palaia, la cognata Angela Palaia e il marito di quest’ultima Angelo Ietto, i cognati Gianluca e Giovanni Palaia, la madre Angela Ferraro e la sorella Marina Pesce. Tutti finiti in carcere il 4 ottobre del 2011 per associazione mafiosa, anche grazie alle rivelazioni di Giuseppina. Adesso il suo calvario verso una nuova vita ha segnato un primo punto fermo.
Leggere loro storie mi fa pensare ad un'Italia lontana, ad modo di vivere vecchio che sembrerebbe superato, ma qui si parla di avvenimenti recenti e che continuano a ripetersi.
Moltissime altre sono le storie di donne coraggiose che hanno dovuto affrontare prove difficili come queste.
Moltissime quelle che sono morte per poter cambiare le loro vite e quelle dei loro figli.
Fa riflettere la quantità di coraggio necessaria per fare scelte del genere quando a volte sembra impossibile fare anche solo un piccolo cambiamento nella nostra vita.

Come sempère potete leggere i nostri ritratti anche nei blog di:
Daniela  Un libro per amico

Grazie Fede, Monica, Miki, Francesca, Daniela

2 commenti:

  1. Penso che questo sia l'argomento più difficile trattato dalla rubrica finora. Una scelta davvero significativa. Ogni tanto bisogna far luce su queste zone d'ombra.

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    1. Sono esperienze così recenti da essere ancora attualità, e non storia.
      E in Italia ne abbiamo così tante che ogni giorno vengono fuori. La cosa peggiore è che spesso sono le persone che vivono in queste situazioni a giustificarne l'esistenza

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