Benvenuti ancora con la nostra bella rubrica, questo mese, per concludere prima della pausa estiva, vi lasciamo ad una nuova voce che si aggiunge a noi per raccontarci il suo ritratto di una donna a dir poco straordinaria: Tony, il fidanzato della nostra Miki.
"Quando la mia fidanzata mi ha proposto
di scrivere un articolo per la rubrica, sono quasi svenuto.
Superato lo shock iniziale, una figura,
una sola, chiara ed inequivocabile, mi si è presentata davanti agli
occhi, una figura di grandissimo valore storico, pari, e non credo di
esagerare affermandolo, al suo corrispettivo maschile, ma di cui si è
parlato troppo poco, a cui raramente sono stati riconosciuti meriti,
innegabili dal mio punto di vista, per il contributo portato alla
lotta per la liberazione del nostro Paese dalla piaga nazifascista.
Le donne partigiane.
Queste donne, alcune giovanissime,
altre meno, hanno vinto una guerra senza sparare un colpo di fucile,
sempre presenti negli scontri, pur non affrontando direttamente il
nemico. Silenziose, ma la cui azione fu rumorosa ed efficace quanto
quella dei colpi che partivano dai fucili dei loro compagni e delle
loro compagne (molte, in realtà, erano le donne combattenti), dei
loro mariti, fratelli, figli. Fondamentali furono le infermiere, così
come le staffette e le informatrici, che fornivano ai combattenti
dettagli fondamentali circa le azioni nemiche, che portavano viveri,
indumenti e munizioni, andando su per i colli, attraverso boschi, con
il costante rischio di essere scoperte e fucilate.
Le staffette costituirono un
ingranaggio importante della complessa macchina dell'esercito
partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle staffette le
direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le
informazioni non sarebbero arrivati nelle diverse zone. Delicato e
duro, quasi sempre pericoloso era il loro lavoro; anche quando non
attraversavano le linee durante il combattimento, sotto il fuoco del
nemico, dovevano con materiale pericoloso, talvolta ingombrante,
salire per le scoscese pendici dei monti, attraversare torrenti,
percorrere centinaia di chilometri in bicicletta o in camion, spesso
a piedi, non di rado sotto la pioggia e l'infuriare del vento.
Pigiata in un treno, serrata tra le assi sconnesse di un carro
bestiame, la staffetta trascorreva lunghe ore, costretta sovente a
passare a notte ne e stazioni o in aperta campagna sfidando i
pericoli dei bombardamenti e del tedesco in agguato.
Spesso dovevano precedere i fascisti che salivano, per avvertire in tempo i nostri, e talvolta restavano coinvolte nel rastrellamento. Dopo i combattimenti non sempre i partigiani in ritirata potevano trascinarsi dietro i colpiti gravemente. Se c'era un ferito da nascondere rimaneva la staffetta a vegliarlo, a prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare il suo ricovero in clinica.
Non di rado, dopo la battaglia, la staffetta restava sul posto nel paese occupato, per conoscere le mosse del nemico e far pervenire le informazioni ai comandi partigiani. Durante le marce di trasferimento erano all'avanguardia: quando l'unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, la staffetta per prima entrava in paese per sincerarsi se vi fossero forze nemiche e quante, se fosse possibile o meno alla colonna partigiana proseguire.
Durante le soste di pernottamento e di riposo le staffette andavano nell'abitato in cerca di viveri, di medicinali e di quant'altro occorreva. Infaticabili, sempre in moto notte e giorno per stabilire un collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere una direttiva; spesso nella piccola busta che la staffetta nascondeva in seno vi era la salvezza, la vita o la morte di centinaia di uomini. (“Il Monte Rosa è sceso a Milano, Secchia Moscatelli).
Spesso dovevano precedere i fascisti che salivano, per avvertire in tempo i nostri, e talvolta restavano coinvolte nel rastrellamento. Dopo i combattimenti non sempre i partigiani in ritirata potevano trascinarsi dietro i colpiti gravemente. Se c'era un ferito da nascondere rimaneva la staffetta a vegliarlo, a prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare il suo ricovero in clinica.
Non di rado, dopo la battaglia, la staffetta restava sul posto nel paese occupato, per conoscere le mosse del nemico e far pervenire le informazioni ai comandi partigiani. Durante le marce di trasferimento erano all'avanguardia: quando l'unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, la staffetta per prima entrava in paese per sincerarsi se vi fossero forze nemiche e quante, se fosse possibile o meno alla colonna partigiana proseguire.
Durante le soste di pernottamento e di riposo le staffette andavano nell'abitato in cerca di viveri, di medicinali e di quant'altro occorreva. Infaticabili, sempre in moto notte e giorno per stabilire un collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere una direttiva; spesso nella piccola busta che la staffetta nascondeva in seno vi era la salvezza, la vita o la morte di centinaia di uomini. (“Il Monte Rosa è sceso a Milano, Secchia Moscatelli).
Queste donne, forti e coraggiose, sono
state il vero motore della Resistenza, che non sarebbe stata
possibile senza di loro e che il 25 Aprile del 1945 pose fine
all’oppressione del regime fascista.
Una donna in particolare, di cui sono
venuto a conoscenza per caso, leggendo la sua autobiografia, “Da
Rivoli verso il mondo”, ha avuto un ruolo importantissimo nella
lotta partigiana del torinese. Si tratta di Lidia Lazzero, nata nella
cittadina alle porte del capoluogo piemontese, il 22 Gennaio del
1925, anno in cui il Fascismo subisce una svolta che porterà
all'abolizione delle libertà democratiche e alla realizzazione di
una dittatura autoritaria.
Lidia trascorre l’infanzia e la
giovinezza segnate dalla profonda sofferenza di vedere l’amato
fratello, Mario, continuamente e pesantemente punito per il rifiuto
di partecipare alle esercitazioni e al corso premilitare voluti dal
duce, che si svolgono il sabato pomeriggio, il cosiddetto “sabato
fascista”. Questi episodi fanno nascere in lei, come racconta
nel libro, “una coscienza e un senso di ribellione alle cose
ingiuste”, sentimenti che si fanno sempre più forti con il passare
degli anni, a causa delle insopportabili condizioni portate dal
regime.
Il 10 Giugno del 1940, dopo la
dichiarazione di guerra alla Francia pronunciata da Mussolini, Lidia
viene umiliata e schiaffeggiata di fronte alla piazza perché si
rifiuta di applaudire.
Nel ’43, a seguito dell’arresto del
duce, assieme ad altri antifascisti, si reca alla Casa del Fascio,
ancora occupata dai fedelissimi di Mussolini, con la ferma volontà
di restituire l’edificio ai cittadini rivolesi. Sopravvive per
miracolo all’enorme mole di fuoco proveniente dalle armi dei
tedeschi asserragliati nella casa, che colpiscono a morte i suoi
compagni prima di fuggire dal retro dell’abitazione. Viene anche
arrestata con l’accusa di aver insultato due donne fasciste. È
dopo il rilascio che comincia la sua vera e propria lotta contro il
regime, entrando a far parte della 15° brigata delle Squadre di
Azione Partigiana, a comando del Comitato di Liberazione Nazionale
Alta Italia.
I primi periodi di lotta si svolgono in
clandestinità, nella fabbrica in cui è impiegata, in cui si
producono accessori aeronautici. A seguito di una protesta degli
operai, che lamentano turni ed orari proibitivi e scarso cibo, per
via del razionamento dei generi alimentari, i nazisti, per calmarli e
garantirsi la presenza di qualche operaio nelle fabbriche, decidono
di consegnare alcune derrate alimentari, che Lidia, d’accordo con
altri partigiani, anch’essi operai nella stessa fabbrica, decide di
rubare e consegnare ai combattenti che patiscono il freddo e la fame,
braccati dai nazisti sulle montagne. È così che ha inizio la sua
attività di staffetta, che continua nonostante il
licenziamento a seguito della denuncia di alcune spie presenti tra
gli operai.
Solo per la città di Rivoli, la lotta
partigiana è costata la vita di moltissime donne: 99 combattenti e
38 civili uccise dai nazisti, 185 deportate nei campi di sterminio.
A soli 18 anni, la partigiana Lidia ha
il coraggio e la forza di affrontare il nemico nei campi, in città,
sui monti. Attraverso i boschi avviene gran parte dei suoi rischiosi
trasporti di viveri, munizioni ed indumenti per i compagni
partigiani. E poi ancora, instancabile, in giro per ospedali a
cercare, assistere e sostenere i combattenti feriti. È proprio lei a
ritrovare la salma del fratello di una sua cara amica, morto a
seguito di un rastrellamento nelle valli di Lanzo. E sempre a lei
tocca il doloroso compito di riportarla a casa e dare la tragica
notizia alla famiglia.
Il 2 Maggio del 1945, l’occupazione
della Germania da parte delle truppe sovietiche restituisce la
libertà, ponendo fine ad un incubo durato oltre vent’anni. Tra il
1943 e il 1945 il nostro Paese ha lottato contro la dittatura
instaurata da Benito Mussolini e fondamentale è stato l’apporto
delle donne italiane, al fianco dei loro padri, fratelli, mariti e
figli, spesso fino alla morte.
Dopo la fine del conflitto, Lidia
dedica la sua attività all’Associazione Nazionale Partigiani
d’Italia, occupandosi della compilazione delle pratiche per il
riconoscimento della partecipazione alla Lotta di Resistenza. Negli
anni successivi le vengono riconosciuti particolari meriti tanto da
essere insignita col Diploma d’Onore di Combattente per la Libertà,
premio che le viene conferito dalla Presidenza della Repubblica.
Tante e importanti sono le mansioni che
Lidia svolge dopo il conflitto: la Camera del lavoro di Torino, la
militanza all’interno del Partito Comunista Italiano, con il quale
è eletta dal ’51 al ’56 nel Consiglio Comunale di Rivoli. Più
volte arrestata durante manifestazioni per i diritti dei lavoratori,
viene poi trasferita alla segreteria generale della C.G.I.L. a Roma e
successivamente a Sofia, in Bulgaria, alla Federazione Sindacale
Mondiale.
Dopo ben sessant’anni di lavoro, in
patria e all’estero, sempre al fianco dei lavoratori, Lidia torna a
Rivoli, dove entra a far parte del direttivo del Sindacato Pensionati
Italiani e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, con
cui organizza una serie di incontri rivolti ai ragazzi delle scuole
medie di Torino e provincia, durante i quali affronta il tema della
guerra e racconta come è nata la Resistenza e come ha dedicato la
sua vita a ideali come la libertà, la giustizia e il lavoro.
Non nascondo che, mentre quest’articolo
prendeva vita, mi era venuta l’idea di intervistarla, ma purtroppo
Lidia Lazzero ci ha lasciati il 19 Maggio del 2010, a 85 anni.
Per concludere vi lascio un pensiero
tratto dal suo libro, in cui mi ritrovo moltissimo:
“Ai giovani desidero ancora
spiegare perché sono riuscita a fare tutto quanto ho vissuto durante
i miei ottantatre anni. Io sono riuscita grazie alla mia forza di
volontà e al mio forte ideale, perché – ricordate tutti sempre –
giovani e meno giovani – che sia nel bene che nel male – e
purtroppo può esserci più male che bene – io sono stata sorretta
dai miei ideali di pace, libertà, giustizia, lavoro, studio,
politica. E non tanto per me, ma rivolti a tutti e al bene
dell’umanità. Ogni giorno mi ripetevo: nonostante tutto la vita è
bella finché son viva, è bella in ogni suo momento, nella gioia e
nel dolore. Basta saperla vivere e, soprattutto, mai cercare di voler
l’impossibile.”
Tony.
Come sempre potete leggere questo articolo anche sui blog di:
Monica Book Land
Miki Miki In The Pinkland
Michele Mr.Ink. diario di una dipendenza
Francesa di Franci lettrice sognatrice
Clara ThePauperFashionistMiki Miki In The Pinkland
Michele Mr.Ink. diario di una dipendenza
Francesa di Franci lettrice sognatrice
Il prossimo mese non ci sarnno ritratti vi aspettiamo ben riposati a Settembre.
E se nel frattempo sentite la nostra macanza potete sempre venirci a trovare sulla nostra pagina.
Grazie mille...
RispondiEliminaInteresting read thanks for sharing
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