Passate bene le feste?
Personalmente ho messo il blog in pausa per un po' perchè questo periodo al lavoro è sempre allucinante, ma oggi riprendo in mano la situazione.
E Cominciamo subito con la nostra rubrica, che abbiamo scelto di posticipare di un giorno in modo da concludere definitivamente le festività, e ripartire con il piede giusto.
L'articolo di oggi lo scrive per noi un'ospite speciale: la scrittrice
"
Lo so, lo so tanti giorni son passati
Però però a me sembra solo ieri
a me sembra ancora ieri"
dall'Inno del Liceo Scientifico 'M. Fanti'
Però però a me sembra solo ieri
a me sembra ancora ieri"
dall'Inno del Liceo Scientifico 'M. Fanti'
Questa
storia comincia qualche anno fa. Era autunno e non solo perché lo
diceva il calendario. Era l'autunno per molte cose che eravamo
abituati a considerare normali, il crepuscolo, col senno di poi, di
un'esistenza senza cellulari e senza internet. Ma poiché
quell'autunno io avevo quindici anni, ogni giorno era una primavera.
Né avrebbe potuto essere altrimenti.
Frequentavo
con alterni profitti il glorioso liceo scientifico "Manfredo
Fanti", unica scuola di Carpi che all'epoca poteva fregiarsi del
titolo di liceo. L'unicità del titolo faceva sentire un po' unici
anche noi. Di certo diversi dai "tecnici commerciali
industriali". Diversissimi dai "professionali". Per
mediocri che fossimo ci sentivamo eccellenti. Eravamo carpigiani,
frequentavamo un istituto che era già un'istituzione, avevamo
T-shirt brandizzate "Liceo Fanti", e un pre-nostalgico Inno
della Scuola che ci faceva piangere, condannati a lacrime e orgoglio,
per gli anni a venire. Eravamo l'elite del provincialismo.
A
questo punto vorrei potervi dire che tra gli unici omologati io mi
distinguevo per estro o ingegno. Ma mentirei. Mi distinguevo solo
perché uscivo con un ragazzo dell'istituto professionale. Si
chiamava Gianluca, giocava a pallavolo, era alto un metro e
ottantasette ed era la persona più bella che avessi mai visto.
Il
nostro amore era ostacolato da molte forze avverse, la più tenace
delle quali era incarnata dalla professoressa di latino. Ora, la
domanda "perché la professoressa di latino di un liceo (anche
se l'unico della città) avrebbe dovuto immischiarsi sulle
frequentazioni di una studentessa di alterno profitto", sarebbe
legittima ma la risposta, temo, deludente.
La
prof lo faceva e basta. Arrivò al punto di chiamare a colloquio i
miei genitori per informarli che io, tutte le mattine, arrivavo a
scuola, caricata sulla canna di una bici da uomo, guidata da un
ragazzo dell'istituto professionale. Non che loro ne fossero
all'oscuro, ma tant'è.
E
tempo di tornare all'autunno da cui siamo partiti. Fu la prof di
latino (sempre lei) a comunicarci solennemente che in quando Studenti
del Fanti avremmo avuto l'onore di assistere alla lezione di un
Premio Nobel per la medicina. 'Lezione' può sembrare ridondante e
fuori luogo. Ma del tutto appropriato a una scuola in cui ti sentivi
dio perché avevi una t-shirt con scritto 'liceo', e ti sentivi
Giulietta, solo perché il tuo Romeo non studiava filosofia. E poi
era l'anno del Cinquantenario della Fondazione, cinque decenni ab
urbe condita.
Per come stavamo messi a ego capirete che si preparavano
festeggiamenti con fuochi d'artificio e baccanali. Rappresentazioni
teatrali. E Lezioni con Premi Nobel.
L'incontro
sarebbe avvenuto nel pomeriggio, in una sala cinematografica della
città, affittata per l'occasione. Gianluca e la sua bici mi
accompagnarono. Il tragitto fu turbolento. Già a quell'epoca avevo
una marcata predisposizione a inscenare drammi romantici e, caso
voleva, che tale predisposizione fosse condivisa dal mio ragazzo. Il
risultato era che ci lasciavamo, spezzandoci il cuore, più o meno
una volta a settimana. E visto che quella settimana ancora non era
successo, fu del tutto normale che ci lasciassimo durante il
tragitto.
Quando
entrai nel cinema cercai le mie amiche per sfogarmi. Dissi che era
finita e stavolta per sempre. Loro non ne dubitarono. Tutto normale.
A quindici anni si presta molto credito alle sofferenze d'amore e si
crede ai "per sempre". Anche quelli che durano cinque
minuti. Prendemmo posto in galleria, le luci si abbassarono e arrivò
lei, seguita da un drammatico occhio di bue. La prima cosa che
pensai, sprofondata nella sedia del cinema, fu che l'amore era un
sentimento straziante, la seconda fu che quella donna sul palco, il
medico, doveva essere vecchia come la morte. La terza che era
asciutta, come se qualcosa, una forza o un morbo, esigesse il suo
corpo; bruciata da dentro, da non so quale fuoco. Poi notai la voce.
Il timbro aveva una vibrazione singolare, affascinante come un naso
importante in un bel viso. E lei, tutta la sua persona, aveva quel
garbo elegante, quella dignità di se stessi, che troviamo nelle foto
dei nonni, da giovani, e ci fa dire che erano bellissimi.
Quella
donna anziana bruciava e vibrava. Ed era bellissima. Parlava dal palco del cinema, illuminata dall'occhio di bue. Sembrava un'astrazione metafisica, un simbolo. E mi venne proprio una gran voglia di capire per cosa stesse quel simbolo. Che cosa rappresentasse quella donna. Così cominciai ad ascoltarla. Ci raccontò di aver dedicato la sua intera esistenza a risolvere gli enigmi della natura. In luna di miele con gli embrioni, consacrata allo studio. E poiché a forza di interrogare la materia ci si può imbattere in risposte che proprio non ti aspettavi, finisce che trovi una risposta che ancora non era stata trovata. Quindi la risposta è una Scoperta. E se sei tenace, fortunato e supportato da una mente brillante, la Scoperta ti porta al Premio Nobel. O almeno a lei era andata così.
Aldilà dei dettagli tecnici sui fattori di crescita dei nervi, che mi sfuggivano allora come ora, ciò che passava con molta chiarezza, ciò che vidi confermato anche negli anni a seguire era la lucidità con cui aveva fatto, per tutta la vita, la stessa cosa che ci esortava a fare. La cosa più importante di tutte, il fondamento di un'esistenza non sprecata.
In
una parola: ricerca.
Decisi
in quel momento che l'avrei fatto anche io. Uscii dal cinema e
raccontai a tutti della mia illuminazione e della mia intenzione di
fare il ricercatore. E, ora posso dirlo, quello non è stato un per
sempre da cinque minuti.
Mi
diplomai al liceo, presi una laurea di quelle 'che puoi fare tutto',
e questo per nascondere il fatto che non servono a niente. Trovai
mille lavori, apparentemente lontani l'uno dall'altro: operatore di
ripresa, sfilate 'tecniche', editoria periodica, televisione. Ma se
dovessi rispondere alla domanda 'cosa fai nella vita'? Io risponderei
che faccio la ricercatrice.
Lo
sono. Una parte di me ha tenuto in serbo l'esortazione di Rita Levi
Montalcini, a cercare. Che siano cose, risposte, il bandolo di una
matassa, il santo Graal, o il fattore di crescita dei nervi; che sia
una cosa che cambia il Mondo, o che cambia solo il tuo, il più
grande favore che uno possa fare a se stesso è cercare. Per tutta la
vita.
La
Montalcini è venuta a mancare un anno fa, a molti anni da
quell'incontro. E ora posso dire che la sua parabola è stata
emblematica. È stato un percorso di eccellenza e tenacia; di rigore
e di affettività. Una donna con le ali e le radici, la capacità di
spiccare il volo e quella di ricordare da dove si viene, perché è
lì che si torna. Quando ho deciso di scrivere due righe su questa
grande donna italiana ho colto l'occasione per leggere il bellissimo
epistolario, "cantico di una vita" ( Raffaelo Cortina
Editore, ed. 2000). Da quelle pagine scritte ovunque e destinate ai
suoi cari, emerge una persona con la valigia, che rincorre piroscafi
e aerei, sballottata da un convegno all'altro, da un istituto di
ricerca all'altro, sebbene non fosse nella sua natura, in quanto era
"specialmente in viaggio di una prudenza che rasenta la
vigliaccheria e di una saggezza da sbalordire"; una donna che
non si dimentica mai di scrivere ai suoi cari e di alzare il
bicchiere agli assenti il 31 dicembre alle cinque del pomeriggio, ora
di St. Louis. Scossa perennemente dalla nostalgia, perché, come
scriveva: "credo che nella solitudine e nella distanza i sensi
si affinino".
Rita
Levi-Montalcini cercò di combattere la solitudine della lontananza
intessendo amicizie e rapporti. Tra le sue frequentazioni,
ricercatori, assistenti, ma anche persone al di fuori dell'ambito
accademico, individui che stimava, come la signora Grey, una donna
"irreligiosa, libera da qualunque pregiudizio di casta e di
razza e piena di compassione per tutti" per la quale si prestava
a recitare poesie in Italiano, ad alta voce. La Montalcini scelse di
non sposarsi e lo fece "senza rimpianti" poiché "quando
il lavoro è a una svolta ho momenti di perfetta e piena felicità".
Amica
degli Americani, curiosa verso i cibi confezionati e l'aria
condizionata. Grata, infinitamente grata, per aver ricevuto
l'opportunità, impossibile in Italia, di portare avanti le sue
ricerche, poiché funzionava allora come ora e " nei concorsi
non avrei avuto nessuno a prendere le mie parti, visto che sono
indipendente". E allo stesso tempo lucida nel giudicare le
contraddizioni di quel Paese che l'aveva adottata "dove tutto è
ridotto a un formulario per evitare agli americani la fatica di
pensare".
Col
progredire della carriera aumentano le relazioni, le cene, gli
inviti. E con gli amici visita mostre, assiste a concerti di
Stravinski (diretti da lui), o a piccoli ritrovi musicali durante i
quali "i colleghi, tra cui Dulbecco suonano in trio o quartetto
Vivaldi e Bach".
Nelle
lettere troviamo il mondo descritto con il filtro dai paesaggi
Italiani, lenti verdi che non può togliersi. E così Long Beach è
"come il Lido di Camaiore", le montagne sull'Highway che
porta a Los Angeles "irreali come quelle cha fanno da scenario a
Forte dei Marmi" e il cielo di St. Louis "più azzurro di
quello di Sestiere" mentre la luce del Campus riporta alla mente
"i baracconi di Piazza Vittorio".
Sperimentò
l'ebrezza e l'orgoglio di essere l'unica donna in più di
un'occasione. Tanto che al meeting di Chicago del 1949 gli oratori, a
inizio conferenza, salutavano con 'lady
and gentlemen',
a cui seguiva "un inchino all'unica lady".
E questa sua unicità, di donna che non fa la moglie e la madre, ma
la ricerca, era un tratto che sentiva di avere in comune con Paola,
la sorella pittrice alla quale scriveva "quel che conta è che
tutte e due mordiamo con passione il nostro osso. E penso che la
nostra vita sia assai più interessante di quella del 99% delle
donne".
Ma
nell'epistolario ho ritrovato soprattutto quell'esortazione alla
ricerca, che a suo tempo tanto mi aveva colpito. E vorrei lasciare a
chi mi ha seguito fin qui alcuni stralci che spero di aver riportato
con fedeltà, nelle mie trascrizioni. Così come le mie memorie sono
state fedeli al monito di quel giorno.
Cercate. E troverete.
1948 – 'sono in armonia con me stessa e col mio prossimo e ho l'impressione di realizzare il meglio di me'
1949 – 'credo veramente sia utile, ogni tanto, fermarsi a vedere qual è la strada migliore da seguire, anziché lavorare a testa china. Senza prendere fiato'
1949 – '(sull'arte) cambiare completamente modo d'espressione, ogni cinque anni, come se un nuovo individuo si sostituisse all'antico, mi pare faccia dubitare dell'onestà degli intenti che l'artista si prefigge e dell'essenza artistica del contenuto'
1949 – 'credo che ci siano poche cose al mondo così piacevoli come far nascere delle idee e poi covarle'
1950 – '(riportando l'opinione di Andersen- direttore e genetista dell'istituto di Botanica) sprigiona da me tale energia che dovrebbero pagarmi soltanto per circolare nei corridoi dell'università'
1953 – 'quel che conta non è tanto la realtà, ma i nostri sogni e quel che noi vogliamo vedere nella realtà'
Cercate. E troverete.
1948 – 'sono in armonia con me stessa e col mio prossimo e ho l'impressione di realizzare il meglio di me'
1949 – 'credo veramente sia utile, ogni tanto, fermarsi a vedere qual è la strada migliore da seguire, anziché lavorare a testa china. Senza prendere fiato'
1949 – '(sull'arte) cambiare completamente modo d'espressione, ogni cinque anni, come se un nuovo individuo si sostituisse all'antico, mi pare faccia dubitare dell'onestà degli intenti che l'artista si prefigge e dell'essenza artistica del contenuto'
1949 – 'credo che ci siano poche cose al mondo così piacevoli come far nascere delle idee e poi covarle'
1950 – '(riportando l'opinione di Andersen- direttore e genetista dell'istituto di Botanica) sprigiona da me tale energia che dovrebbero pagarmi soltanto per circolare nei corridoi dell'università'
1953 – 'quel che conta non è tanto la realtà, ma i nostri sogni e quel che noi vogliamo vedere nella realtà'
Clara ThePauperFashionist
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