Eccoci qui con il nstro appuntamento mensile con Ritratto di Signora e per questo mese anbbiamo una sorpresa: la scrittrice Francesca Diotallevi ha accettato di scrivere un ritratto per noi.
Dolcissima
e fragile. Indomita e visionaria. Il mio Ritratto di Signora vuole
omaggiare una donna le cui ali spezzate non hanno impedito un volo
spericolato sugli abissi insidiosi che la vita le ha riservato: la
pittrice Frida Kahlo.
Una
ragazzina come tante, forse più fiera, o solo più cocciuta, a cui è
stata riservata la più difficile delle prove: morire e rinascere.
Conoscersi di nuovo, e conoscersi in una veste nuova. Fare della
propria debolezza un punto di forza, della propria sofferenza un modo
per guardare il mondo con occhi diversi, lasciando dietro di sé una
scia di dipinti capaci di incantare, di commuovere, di entrarti
sottopelle. Capaci di offuscare anche il gigantesco marito-genio
Diego Rivera, il più grande artista messicano dell’epoca.
A
diciotto anni Frida, ragazza di buona famiglia, che studia per
diventare medico, incappa nel Destino: il suo ha la forma di un tram,
e le arriva dritto addosso. Frida è sull’autobus che da Città del
Messico la sta riportando a casa, a Coyoacàn. Con lei c’è il
fidanzato Alejandro.
Il
tram si avvicinò con una lentezza esasperante. Lo vedemmo comparire
all’improvviso all’angolo tra Cuahutemotzín e 5 de Mayo, quando
stavamo per voltare in Calzada de Tlalpan. Sembrava non avere freni.
Fu quella terrificante lentezza a darci la consapevolezza che non ci
sarebbe stato scampo. Veniva verso di noi come qualcosa di fatale, a
cui sarebbe stato vano opporsi.
Lo
scontro fu inevitabile; poi, senza fretta, il tram iniziò a
trascinare l’autobus fino a schiacciarlo contro un muro.
Ricordo
lo stridore di freni, lo scossone iniziale, e la sorprendente
elasticità dell’autobus, che sembrò reggere l’urto fino alla
fine. Le ginocchia dei passeggeri seduti gli uni di fronte agli
altri, sulle panche di legno, arrivarono quasi a toccarsi. Tutto
tremò e traballò, in un precario equilibrio. Qualcuno cadde, altri
fecero appena in tempo a farsi il segno della croce. Cercai lo
sguardo di Alex, e quello che vidi nel fondo dei suoi occhi scuri non
mi piacque. Fu in quel momento che iniziai ad avere davvero paura. Fu
l’ultimo punto di contatto con quella che, fino a quel momento, era
stata la mia vita.
Poi
tutto esplose. L’autobus si spezzò a metà, la lamiera si
accartocciò come se fosse fatta di cartapesta, le assi del fondo si
sollevarono e si frantumarono in centinaia di schegge di legno.
Qualcuno cadde nella voragine che si aperta al centro dell’autobus,
e venne schiacciato dal tram, che sembrava incapace di arrestare quel
suo placido incedere. Passò su di noi come una falce sul grano, non
rimase nulla dopo.
Venni
scalzata dal sedile e scaraventata con violenza contro la mia sorte.
Qualcosa si frappose, in quel volo disperato. Qualcosa che aveva la
durezza e lo spietato gelo del metallo. Mi trapassò da parte a
parte, a ricordarmi che la vita è un dono e che basta un soffio a
spegnerla. Poi ricaddi a terra, tra i cocci di vetro, il sangue e i
pezzi di un’esistenza andata distrutta nel momento stesso in cui
quel tram era apparso all’orizzonte.
Quello
che ricordo, di quei pochi istanti in cui conservo una, seppur
confusa, memoria, è l’oro. Il cielo era d’oro, sopra di me;
erano d’oro i miei abiti strappati, i capelli impastati di sangue e
le gambe nude, piegate in una strana posizione. Non sentivo dolore,
non sentivo niente. Volevo solo restare a guardare quella nuvola di
polvere dorata che si era sollevata quando il cartoccio dell’uomo
che, solo pochi istanti prima, era in piedi vicino a me, conteneva.
«La
bailarina, la bailarina!» gridò qualcuno, vicino a me. In quel
momento non capii a cosa si riferissero. Ma dovevo offrire uno
spettacolo bizzarro, ricoperta d’oro e con il corrimano di metallo
del tram che mi trapassava il corpo. Mi aveva trafitto nello stesso
modo in cui una spada trafigge un toro. Feci un sospiro, sentendo
all’improvviso una grande stanchezza. Pensai al parasole che mi
aveva prestato mia sorella Cristina. Pensai al balero dai bei colori
che avevo comprato proprio quel pomeriggio e che tenevo nella
cartella. Sperai che non si fosse sciupato; provai a cercarlo ma
scoprii, un po’ sorpresa, di non averne le forze.
«Sta
morendo?» domandò qualcuno, accanto a me.
«L’ambulanza
sta arrivando» rispose un’altra voce.
«Non
farà mai in tempo.»
Chiusi
gli occhi. Quella che ero stata fino a quel momento, la Frida che per
diciotto anni aveva abitato il mio corpo agile e aggraziato, morì su
quella strada, palcoscenico su cui si era consumata la prima tragedia
della mia vita.
Dicono
che per costruire qualcosa di nuovo vada distrutto ciò che c’era
prima. Anche per Frida andò così. La ragazza spensierata che fino a
quel momento aveva vissuto la vita con entusiasmo e leggerezza
scomparve per lasciare il posto a una creatura nuova, più profonda e
inevitabilmente segnata. La nuova Frida ha uno sguardo serio, capace
di guardare oltre, di indagare al di là della superficie delle cose.
La nuova Frida conosce il dolore, quello che ti morde la carne senza
tregua, e impara a conviverci. Ci convivrà per tutta la vita, che
non sarà lunga, ma sarà una vita coraggiosa, sempre tesa a sfidare
i propri limiti, quelli del corpo e quelli dell’anima.
Il
bollettino medico, che un dottore dall’aria contrita fece a me e
alla mia famiglia, scandendo bene ogni parola, aveva
dell’incredibile. L’incidente mi aveva spezzato la colonna
vertebrale in tre punti; mi si erano rotti anche l’osso del collo,
la terza e la quarta costola. La gamba sinistra aveva riportato
undici fratture e il piede si era dislocato e schiacciato. La spalla
sinistra era uscita dalla sua sede e le pelvi si erano frantumate in
tre punti. Il corrimano di metallo del tram mi aveva perforato
l’addome ed era uscito attraverso la vagina. Più tardi ci avrei
scherzato, dicendo che avevo perduto così la verginità.
Il
fatto che fossi ancora viva era un miracolo, ma non tutti sembravano
pensarla così. Mia madre si era chiusa in un ostinato mutismo, non
aveva neanche la forza di venirmi a trovare. A chi glielo chiedeva
rispondeva che sarebbe stato meglio che me ne fossi andata senza
soffrire, invece di restare in vita ed essere costretta a quel
supplizio.
Ed
era un vero supplizio. Il dolore andava e veniva a ondate, senza
darmi tregua. Completamente immobilizzata, me ne stavo a fissare il
soffitto bianco dell’ospedale per ore, le lacrime che mi rigavano
le guance a causa della sofferenza e della frustrazione. I miei
spericolati voli di uccello erano finiti, restava solo il gesso che
mi paralizzava e la struttura dentro a cui ero rinchiusa, simile a un
sarcofago.
Di
notte la morte danzava attorno a me, facendosi beffe della mia
sciocca ostinazione. Ma non gliela avrei data vinta. Mai.
Frida
sopravvive, dunque. Passa lunghi mesi immobilizzata a letto,
rinchiusa in busti di gesso che le impediscono di muoversi. La
pittura arriva in punta di piedi, a salvarla, a occupare uno spazio
vuoto, a impossessarsi di ogni aspetto della vita di questa ragazza
spezzata, ma intenzionata a non lasciarsi sopraffare. Nemmeno
dall’abbandono del fidanzato, incapace di conciliare l’immagine
della ragazza allegra e gioiosa con questa nuova Frida invecchiata,
di colpo, di cent’anni.
Aprii
gli occhi, sbattendo le palpebre nella calda luce del tardo
pomeriggio. Avevo le labbra secche, incollate tra di loro. Da mesi
vivevo in uno stato di completo intorpidimento, non ricordavo più
che giorno era, entravo e uscivo dal dormiveglia. Le mie notti erano
popolate di incubi, le giornate diluite nella noia. Il dolore era una
morsa continua, come un cane che azzannava senza tregua la mia carne.
L’immobilità mi stava consumando. Mi sentivo una pianta che
avvizziva in un angolo buio. Senza luce e pioggia che ridessero linfa
al mio spirito inaridito mi sarei spenta fino a morirne.
Voltai
il viso verso il comodino, in cerca di del bicchiere d’acqua con
cui dare sollievo alla mia gola riarsa e mi accorsi che mio padre era
al mio fianco. Seduto sulla sedia su cui si alternavano i membri
della mia famiglia, e le poche persone che ancora venivano a farmi
visita, mi osservava con i profondi occhi scuri sotto le folte
sopracciglia nere.
«Papà»
buttai fuori, con una smorfia di dolore, mentre cercavo, inutilmente,
di sgranchire il mio corpo nel busto di gesso. Mi sentivo come un
mollusco chiuso in un carapace troppo stretto e talvolta mi chiedevo
se esistesse ancora la mia pelle, là sotto. Se ci fossero le ossa,
se il mio cuore battesse ancora. Spesso, nel corso dei mesi, mi ero
sentita tutt’uno con quel calco che mi avevano sagomato addosso,
appendendomi per la testa per fare in modo che, mentre si asciugava,
la mia spina dorsale fosse perfettamente dritta. Una statua vivente,
ecco cos’ero. Un bizzarro esperimento che faceva di me una creatura
a metà. Viva, eppure tenuta lontana da quella vita che avevo amato
con ogni fibra del mio essere, bloccata in quel letto che era
prigione e tomba di ogni mio sospiro. Un colibrì a cui avevano
spezzato le ali, che abitava un pianeta di dolore, trasparente come
ghiaccio. Avevo imparato ogni cosa di colpo; se le persone che mi
circondavano erano cresciute un poco alla volta, io ero invecchiata
in pochi istanti, e mi sentivo già stanca di tutto.
«Mia
piccola Frida» mormorò mio padre, abbozzando un sorriso. «Come ti
senti, oggi?»
Pensai
a cosa avrei voluto rispondere, poi scossi la testa. Non volevo
condividere con lui la mia sofferenza, né con nessuno della mia
famiglia. Li avevo messi fin troppo alla prova; ogni loro patimento
era un senso di colpa che andava ad accumularsi agli altri, quelli
che, nonostante tutto, provavo per essere diventata perenne fonte di
preoccupazione.
«Un
po’ meglio di ieri e un po’ peggio di domani» dissi, per non
angosciarlo più di quanto già non fosse.
«Be’,
io credo che oggi ti sentirai un po’ più felice» disse lui,
chinandosi per prendere qualcosa che aveva appoggiato per terra, al
suo fianco. Quando si sollevò vidi che tra le mani stringeva una
scatola. La conoscevo bene, era la scatola dei suoi colori a olio. Da
bambina mi piaceva sedermi accanto a lui e vederlo sfoggiare le sue
modeste capacità pittoriche. Si cimentava per lo più nei paesaggi
che offriva Coyoacán. Io, che ero affascinata da qualunque cosa
facesse mio padre, studiavo ogni sua mossa nei minimi dettagli,
cercando di non perdermi nemmeno un passaggio di quel processo
affascinante che rendeva una tela bianca un luogo popolato di
immagini e colori. I colori, soprattutto, mi interessavano. Mi
piaceva vedere il modo in cui potevano essere sfumati, il modo con
cui davano vita alle forme.
«I
tuoi colori a olio?» domandai, perplessa. Sapevo che li teneva con
grande cura e ne era molto geloso.
Lui
annuì: «Ora sono tuoi. Io e tua madre abbiamo pensato…» si
bloccò, indeciso su come proseguire. «Da bambina ti piaceva molto
disegnare. Potrebbe essere un modo di passare il tempo.»
Levai
le sopracciglia, stupita da quella nuova prospettiva che mio padre mi
stava offrendo. Di tempo ne avevo fin troppo a disposizione. Avrei
accolto con gioia qualunque diversivo si fosse frapposto fra me e
quella noia spietata che mi avvelenava le giornate, portandomi a
fissare il baldacchino del mio letto spesso per ore.
Mia
madre, in un impeto di intraprendenza, mi aveva fatto preparare da un
falegname un cavalletto grazie al quale avrei potuto dipingere stando
sdraiata. Era un diversivo interessante e mi ci accostai con un
entusiasmo che non avvertivo da tempo, salvo bloccarmi, dopo pochi
minuti, davanti all’ineluttabilità della tela bianca.
Mi
guardai intorno, smarrita. Ero sola. In grembo avevo i colori a olio
di mio padre, un lapis con cui tracciare il bozzetto e un paio di
pennelli un po’ spelacchiati, ma più che validi per quello che mi
proponevo di fare. Sollevai la matita e la soppesai nel palmo per
alcuni secondi, premendo la mina contro i polpastrelli. La avvicinai
alla tela, poi la scostai. La mia mano rimase sospesa a mezz’aria.
Cosa avrei dovuto dipingere, esattamente? Da bambina disegnavo ciò
che mi suggeriva l’immaginazione. Spesso, nei momenti di
solitudine, avevo tracciato con la punta l’indice la sagoma di una
porta sulla condensa di un vetro appannato. Da quella porta ero
scappata tante volte per raggiungere la mia amica immaginaria, una
bambina della mia età con cui condividevo i miei sogni. Mi chiesi se
quella bambina esistesse ancora, da qualche parte dentro di me. Se
fosse cresciuta e che aspetto avesse, dopo tutti quegli anni.
Riportai la mano alla tela e traccia un ovale un po’ incerto, poi
provai ad abbozzare un naso e degli occhi. Mi bloccai di nuovo. Non
riuscivo a proseguire senza un modello a cui affidarmi, ma non avrei
saputo a chi domandare di posare. Ebbi la risposta ruotando il viso
verso la cassettiera appoggiata al muro e sovrastata da una
specchiera. Chi, meglio di me, poteva restare fermo nella stessa
posizione, senza muovere un muscolo, per ore, giorni, mesi?
Nei
giorni successivi i miei genitori fecero montare uno specchio sul
lato inferiore del baldacchino che sovrastava il mio letto. Eccomi
lì, il volto incavato e gli angoli della bocca piegati all’ingiù
dall’inerzia. Solo gli occhi trasmettevano una ferma volontà e mi
ricordavano che, nonostante tutto, ero più viva che mai. Non era il
corpo a decidere, ma lo spirito, e il mio era ancora forte e
combattivo.
Era
un modo di ricominciare e ricominciavo da me, studiandomi in uno
specchio, andando oltre quel corpo che era prigione e ancora di
un’anima che sognava solo il cielo e la sua sconfinatezza.
Nel
momento stesso in cui stesi la prima pennellata di colore, per
sovrastare il bianco che mi opprimeva, perché mi ricordava quello
dell’ospedale, avvertii un frullare di ali. E capii che la Pelona
non mi aveva piegato, non ancora.
Dipinsi
seguendo il mio istinto; non avevo compiuto studi in materia, se non
qualche sporadica lezione acquisita dall’incisore Fernando
Fernández,
un caro amico di mio padre presso cui avevo lavorato per un breve
periodo, per mettere da parte qualche soldo.
Lentamente,
dalla tela che avevo davanti, emerse un volto, il mio. Emersero gli
occhi pieni di vita, le labbra atteggiate in un lieve sorriso, i
capelli raccolti e il collo lungo. C’era qualcosa di aristocratico
nel modo in cui mi ero raffigurata, che dovevo all’arte italiana
che
Fernández
mi aveva mostrato nel suo studio.
Una
Madonna rinascimentale?
No,
non ero una santa. Mi dipinsi con un abito di velluto rosso dalla
scollatura vertiginosa. Il quadro sarebbe stato un regalo per Alex,
un dipinto che gli avrebbe ricordato cosa si era lasciato alle spalle
abbandonandomi in quel letto messicano mentre lui viaggiava per
l’Europa.
Il
mio primo approccio all’arte venne alimentato dal senso di rivalsa.
Una rappresaglia alla cattiva sorte che mi perseguitava e che mi
aveva tolto tanto.
Guardai
il dipinto. Non era eccelso, era anzi un primo tentativo molto
modesto, ma esprimeva qualcosa: un bisogno di risarcimento che si
esprimeva attraverso linee e colori fino a dare voce alla mia sete di
vita.
In
quel momento, con le dita ancora sporche di colore e l’odore di
olio e trementina che aleggiava nell’aria, mi resi conto di essere
rinata. Attorno, improvvisamente, avevo un mondo intero; come quando,
da bambina, mi bastava disegnare una porticina nella condensa di un
vetro per viaggiare oltre me stessa.
L’arte
era la strada. L’arte era la vita.
Frida,
scrissi sotto al ritratto.
Sì,
Frida, la nata due volte.
Frida
torna a camminare, e torna ad amare, innamorandosi del gigante
(fisicamente e artisticamente parlando) Diego Rivera. Lo sposa,
contro il parere contrario dei genitori, che definiscono la loro
unione l’incontro tra una colomba e un elefante. Sopporterà, oltre
ai propri problemi di salute, anche i dolori inferti al suo cuore
dalla maternità negata a causa dell’incidente, e dalla leggerezza
del marito, che non perde occasione per tradirla, pur amandola più
di qualunque altra cosa. L’ultimo tradimento viene consumato con la
sorella minore di Frida, Cristina. È la goccia che fa traboccare il
vaso, Frida non regge il colpo. La coppia divorzia.
Io
sono dolore. Poso le mani sui reni, cercando di raddrizzare la
schiena; è come raddrizzare un albero abbattuto dalla tempesta. Fa
male, ma alla sofferenza sono abituata da tanto, troppo tempo. Se
guardo indietro non riesco a ricordare cosa significhi vivere senza
l’impressione che il corpo, che minaccia di disfarsi a ogni
respiro, si tenga invece insieme per miracolo. È questo che la gente
sussurrava di me, dopo il primo dei due brutti incidenti che mi sono
capitati nella vita: è una miracolata. Io, però, non ci ho mai
creduto. La mia salvezza, se di salvezza si è trattato, l’ho
vissuta come una condanna. Se è vero che per ogni cosa c’è un
prezzo da pagare, il mio debito per essere sopravvissuta credo di
averlo saldato da un pezzo. Questo la pelona dovrebbe saperlo.
Appoggio
il pennello sulla tavolozza, il quadro che ho davanti è uno dei più
grossi che abbia mai dipinto. Lo volevo così, ingombrante,
impossibile da ignorare. Due Frida mi osservano dalla tela. Due me
stessa con un solo cuore, diviso a metà. Una è seria,
imperturbabile. Nella mano sinistra stringe una foto di Diego
bambino, da cui parte una vena che da lui prende nutrimento. La
destra è aggrappata alla mano dell’altra Frida, la Frida
spaventata, quella che sta morendo dissanguata. La pinza da chirurgo
con cui tenta di fermare l’emorragia non basterà a salvarla. Il
sangue le macchia la gonna, sbocciando come fiori cremisi sul pesante
cotone bianco.
Lo
osservo con aria critica, accendendo una sigaretta. Il fumo si
solleva davanti a me, componendo e scomponendo immagini. Diranno che
è macabro, spaventoso, funesto. Sì, lo è. È come l’amore, la
vita, la morte. È speranza delusa, affetto tradito e desiderio
frustrato. È ciò che sono io in questo momento: una donna divisa.
Divorziata.
Penso
a cosa significa questa parola, per me. È il fallimento di un sogno
in cui ho creduto con cieca determinazione. È un naufragio che mi
lascia senza forze. Tante volte mi sono rialzata nella vita, e non
parlo per metafore. Ci ha provato, la sorte, a spezzarmi le gambe e
la schiena. Mi ha lasciato inerme, alla deriva di un mare in
tempesta. Ma non è bastato.
Spengo
la sigaretta e ne accendo un’altra. Dicono che fumi troppo, e che
beva troppo. E che sia troppo magra, troppo debole e cagionevole per
sopportare tutto questo. Ma non mi interessa. Guardo il quadro che ho
davanti, l’ennesimo autoritratto che mi aiuta a fare chiarezza, a
scorgere me stessa oltre la fragilità della mia pelle. Qui sono
colore vibrante ed emozione. Qui sono Frida, molto più di quanto non
lo sia nella vita vera. Vivo attraverso una tela, oltrepasso i
confini dei mondi, fisso i sentimenti con una sfumatura, in modo che
non mi sfuggano mai più, che restino a ricordarmi chi sono e cosa
provo.
Non
sono stata sempre così. C’è stato un tempo in cui tutto questo
non aveva importanza, volevo solo vivere, diventare medico, essere
felice. Volavo con la spensieratezza di un uccello dalle ali robuste.
Un uccello che non teme venti e tempeste.
Poi
c’è stato l’incidente, il primo, quello che ha deciso il mio
destino. Mi ha tolto tanto, ma in cambio mi ha donato uno sguardo
nuovo, capace di guardare oltre; mi ha donato l’arte e la
consapevolezza che ogni istante può essere l’ultimo.
Il
secondo incidente, di gran lunga il peggiore, è stato mio marito
Diego.
Nonostante
tutto, Frida e Diego sembrano destinati a stare insieme, creati per
appartenere l’uno all’altra. Si risposano, ed è Diego ad
assistere l’amata moglie nei suoi ultimi anni, che sono fatti di
atroci sofferenze fisiche. Frida ormai non si alza più dal letto. La
colonna vertebrale è a pezzi, le hanno amputato una gamba a causa
della cancrena, e tutto il fisico inizia a cedere.
Prima
di andarsene Frida annota nel suo diario: Spero che la fine sia
gioiosa, e spero di non tornare mai più.
Di
lei rimangono i suoi quadri, compagni di viaggio, testimoni intimi,
talvolta dolenti, altre surreali, di una vita vissuta fino all’ultimo
respiro con coraggio e tenacia.
Una
funambola sospesa ad altezze vertiginose; un corpo traditore, creato
per contenere sofferenza, e una mente libera, in grado di librarsi
sopra le brutture della quotidianità. Questo è stata Frida Kahlo,
un’anima bella.
Ho adorato ogni singola parola del ritratto che Francesca ha scritto per noi, le parti in corsivo non sono, come si potrebbe pensare delle citazioni, ma il suo modo di raccontarci la vita di Frida in maniera molto profonda.
Come sempre potete trovare il ritratto anche sui blog di
Daniela Un libro per amico
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